Repubblica 13.5.15
“Ho creato il primo microchip ma il computer più forte è l’uomo”
Oggi Federico Faggin studia le meraviglie del cervello Negli Anni 70 inventò il celebre 4004 poi gli schermi touch. E non è finita qui
di Riccardo Luna
«A 19 anni ero appena diventato un perito elettronico, lavoravo in Olivetti e a Borgolombardo costruii il mio primo computer. Non era ancora un personal computer, quello arriverà qualche anno dopo, nel 1964, con la “Programma 101”; ma il mio ne era il padre legittimo. A 26 mi ero laureato a Padova e in Brianza sviluppai la prima tecnologia di processo per la fabbricazione di circuiti integrati. A 30 già vivevo in Silicon Valley, e nel 1971 per la Intel realizzai il primo microprocessore al mondo: il 4004, tutta la potenza di un computer in un chip. Se guarda bene, un angolino ci sono le mie iniziali: F. F., Federico Faggin. La mia firma. Le dico questo perché quando guardo all’Italia, alla mia Italia, soffro: soffro nel vedere quanti giovani sono senza lavoro. È inaccettabile, così un paese fa fuori il proprio futuro. I ragazzi non dovrebbero accettarlo, meglio partire e poi semmai tornare, ma intanto partire. Imparare. Inventare. Quello devi fare a vent’anni. Lo so bene, ci vuole coraggio ad andarsene, lasciare la casa, la mamma. Ma non possono sprecare i loro anni migliori a non far nulla per mancanza di occasioni». Se oggi ci fosse la Champions league dei grandi inventori viventi, Federico Faggin avrebbe un posto in finale. Ha 74 anni e, anche se torna in Italia con frequenza, da quasi mezzo secolo vive in Silicon Valley: ha iniziato il suo percorso quando non c’erano i personal computer, internet, gli smartphone e gli schermi touch e se ci sono lo dobbiamo anche a questo vicentino che si è innamorato del futuro a 11 anni vedendo volare un aeroplanino e che nel 2011 ha ricevuto dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama la medaglia d’oro per l’innovazione.
Finalmente il suo posto nella storia è stato riconosciuto.
«Diciamo che hanno dovuto riconoscerlo. Anche se qualcuno ha provato a fregarmi, ma è stato determinante il ruolo di mia moglie Elvia nel far uscire la verità ».
Oggi i suoi rapporti con Intel sono ottimi, ma ai tempi lei lasciò l’azienda sbattendo la porta. Perché?
«Uno dei fondatori, Andy Grove, non mi sopportava. Non credeva all’idea del microprocessore e quando fu evidente che era un successo temeva gli facessi ombra. Fu molto duro con me, mi minacciò. E così sono uscito da lì e mi sono fatto la mia azienda, Zylog ».
Perché poi non ha avuto successo?
«Un caso della vita. La Ibm, che allora controllava il mercato, scelse Intel come fornitore perché temeva la concorrenza di uno dei miei finanziatori».
Ma poi si è preso la sua rivincita fondando ben tre aziende che erano già nel futuro: una per il collegamento di telefono e computer, una per gli schermi touch e una terza per sensori di fotocamere digitali.
«È vero, ho avuto tanto successo ma il meglio è quello che sto facendo adesso. Con la Fondazione che porta il nome mio e di mia moglie. Supportiamo ricerche universitarie nel campo della consapevolezza per dimostrare cos’è e quindi il motivo per cui il computer più potente del mondo è e resterà sempre il cervello umano».
Si leggono molte storie che dicono il contrario, l’allarme sull’intelligenza artificiale è una moda.
«Sono balle, figlie di una visione meccanicistica della vita. Un computer nel futuro potrà fare meglio le cose che sanno fare i computer, ma non potrà mai avere sentimenti, sensazioni. Mai. La capacità di calcolo non genera suoni, visioni, emozioni. I computer non hanno un’anima, e più studiamo il cervello più ci rendiamo conto della sua meravigliosa complessità. Potrei dire, con un paradosso: meno lo capiamo. Per questo studio la consapevolezza, perché capirne il funzionamento è in fondo il vero mistero dell’umanità».
Insomma lei non teme che un giorno macchine sempre più evolute possano prendere il controllo del mondo?
«Mai, mai, mai. Noi siamo molti più di un computer. Questa storia è come la profezia di quel Ray Kurzweill che ha fondato una bizzarra “università della singolarità” partendo dall’assunto che fra 30 anni potremo scaricare la nostra memoria su un computer. Come se fossimo fatti solo di dati. Sono cose che non hanno senso, paragonare gli uomini a delle macchine vuol dire non aver capito la nostra grandezza».
Così parlò l’uomo che ha inventato il computer su un chip.