martedì 12 maggio 2015

Repubblica 12.5.15
Le conseguenze dell’Italicum
Il sistema elettorale del governo vuol garantire una premiership a vita o quasi
Con la riforma del Senato l’apparato avrà mano pesante
di Franco Cordero


SALTA agli occhi che l’Italicum sia un’ingegnosa soperchieria. Lo junior del circo politico italiano (chiamiamolo Gran Cuculo) s’impadronisce del Pd alle primarie sbaragliando una litigiosa confraternita parolaia, candidata alle sconfitte, e sarebbe strano che non vi contribuissero schiere blu, avendo riconosciuto l’emergente condottiero. Incoronato segretario, rimane tra le quinte, mentre la vecchia guardia affossa Romano Prodi reinvestendo Neapolitanus rex, con sguaiata festa berlusconiana. Indi defenestra il gemebondo premier. Eccolo in sella, padrone dell’esecutivo. Al pubblico piace, così dinamico, imperioso, tranchant, sotto qualche aspetto paragonabile al giovane Mussolini: tutt’e due vogliono «cambiare l’Italia»; parlano come se dire una cosa fosse averla fatta. Cautela e dubbio non fanno parte del suo repertorio egocratico: ha convocato Silvius Magnus al Nazareno; il dialogo scorreva in «profonda sintonia», dichiara uscendo; e sappiamo i programmi forzaitalioti, dai privilegi Mediaset alla giustizia classista. Frase da intendere alla lettera: avesse inibizioni ideologiche, non vanterebbe una precoce carriera, tornei televisivi inclusi; gli conferisce glamour avere imposto figure da vassallo al vecchio partner; divorarselo a quel modo, un fondatore d’imperi mediante frode, era impresa da lupo mannaro mai visto nella foresta italiana; il tutto con l’arte d’uno che giochi a scacchi. Astuto, cinico, fortunato. Aveva Giovanni Battista nel loquace Capo dello Stato: intrighi notturni lo riportano al Colle; predicava «larghe intese »; le attua incaricando Enrico Letta, onomasticamente perfetto, poco concludente però, e dopo dieci mesi gli sostituisce il Cuculo. L’offeso non s’è ancora consolato.
L’Italicum vuol garantire una premiership a vita o quasi. Nel nuovo sistema monocamerale l’apparato ha mano pesante: crea i deputati manovrando capilista e candidature multiple; avendone 340 su 630 (tanti ne porta il premio a chi supera il 40% o prevale nel secondo turno), l’installato a Palazzo Chigi risulta de facto inamovibile. Capitava sub l. 19 gennaio 1939. Il fascismo trionfante liquida l’ultimo residuo formalmente democratico abolendo la Camera dei deputati: quella dei Fasci e Corporazioni è consesso fluido, continuamente rinnovato; i mille componenti vi figurano in virtù della carica nel partito o in una delle ventidue corporazioni. La meccanica elettorale assicura al premier un dominio che ai bei tempi Giolitti fondava sull’ascendente personale: la fiducia diventa obbedienza; vi saranno crisi solo quando lui voglia. Succeduto a Luigi Facta, 31 ottobre 1922, Mussolini riempie la scena fino al 25 luglio 1943, capo assoluto d’un governo i cui ministri e sottosegretari vanno e vengono: se li sceglie; Sua Maestà li nomina; i banchi applaudono o ringhiano, secondo gli ordini; e sarebbe un potere sine die, a termine biologico, se Dux non fosse così malaccorto da legarsi al folle Adolf Hitler. Fattori eversivi esterni disintegrano una macchina perfetta.
Diamo per scontato che la prossima legislatura inauguri il ciclo dei governi con deboli contrappesi. Il futuro è indeterminato, qualcosa però s’intravede. Svaniscono parole d’ordine d’una sinistra estinta dal vuoto d’idee, e l’homo novus ha degli argomenti, visto lo squallido centrosinistra governativo negl’intervalli del ventennio. Parlatore incauto, lancia la sigla d’un «partito nazionale», simile all’«unico », mussoliniano. La «profonda sintonia» non lascia tranquilli. Era sincero nel confessare un’affinità epurata. In dinamismo pragmatico somiglia all’Olonese. L’aspettavano colletti bianchi compunti, patrioti, moderati, quindi intransigenti sulle barriere sociali: votavano B. faute de mieux, male sopportando le volgarità; a colpo d’occhio riconoscono l’agonista senza tare, possibile Baiardo del moderatismo. Non esiste confronto con gli esponenti forzaitalioti, verosimilmente ostili. Pulsione reciproca. Sa d’estro dionisiaco l’abbraccio col quale Angelino Alfano e Maria Elena Boschi, macchinista delle riforme costituzionali, salutano i 334 sì raccolti dall’Italicum (qui, 5 maggio 2015, p. 3). Meno incline alle effusioni, lo stratega tira i conti. Sia detto forte, «la gente è con noi».
Gli servono voti ex berlusconiani, perché molti Pd ingrosseranno l’astensione dalle urne, fenomeno allarmante. Il baricentro scivola verso Arcore: gli acquisiti ne porteranno altri; fungono da pontieri i transumanti del Nuovo Centrodestra (li ricordiamo genuflessi davanti al santo barzellettiere). Sa d’essere erede naturale d’un vecchio monarca i cui spiriti declinano, ma la successione non è gratuita. I convertiti hanno degl’interessi e idee chiare su come coltivarli: Berlusco felix serviva privilegi, rendite, lucri parassitari, affari comodi, giustizia bendata, fisco morbido; né chiedono meno al nuovo regime. Ogniqualvolta venga sul tappeto una delle predette questioni, i ministri Ncd s’irrigidiscono: devono presentare le scelte governative agli elettori; nella loro lingua “moderato” significa sguardo selettivo, perché non siamo tutti eguali. Ma anche ridenominato «partito nazionale», il Pd non può continuare linee berlusconiane senza perdere voti sull’altro versante. I moderati esigono favori. Ora, vigono equazioni d’economia: i parassiti portano miseria, Paese arretrato, ritardo intellettuale, vita incivile; le due anime implicano difficoltà insolubili; non è malattia medicabile con formule retoriche o gesti da palcoscenico. Esistendo macchine elettorali perfette nel riprodurre i 630 deliberanti, niente garantisce un sèguito indefinito; può anche darsi che l’evento scatenante della crisi lieviti dall’aula parlamentare: nella notte tra sabato e domenica 25 luglio 1943 Mussolini cade sull’odg presentato da Dino Grandi, moderatissimo presidente a Montecitorio.