lunedì 11 maggio 2015

Repubblica 11.5.15
Ceuta, nel quartiere più pericoloso di Spagna tra i clandestini disperati come il piccolo Abu
di Pietro Del Re


CEUTA È una fiumana di dannati appesantiti da voluminosi fagotti che vedi trotterellare verso il Marocco. Dall’enclave spagnola di Ceuta, attraversano il confine anche due o tre volte al giorno per contrabbandare la loro merce a Tangeri o Tetuan. «Non siamo migranti ma commessi viaggiatori o, meglio, pendolari della fatica», dice Ahmed Kamal, musulmano di Ceuta, agile e piccolo di statura, che torna a casa dopo aver scaricato oltre confine 70 chili di cellulari, computer portatili, detersivi e videocassette. Di autentici migranti, giunti a questa porta dell’Europa da Paesi sub-sahariani, ne incrociamo soltanto un piccolo gruppo, parcheggiato sotto una tettoia di lamiera da chissà quante ore. Sono tutti uomini, ancora infreddoliti per aver trascorso la notte all’addiaccio: aspettano, ma l’attesa non li spazientisce. Anzi, alcuni sembrano perfino felici. «Sono a un passo dalla meta, dopo migliaia di chilometri e un’infinità d’insidie, non ultima quella della polizia marocchina che adesso quando li agguanta li rispedisce nei loro Paesi d’origine. Chi riesce ad arrivare fin qui è davvero molto scaltro, oppure abbastanza ricco da poter corrompere chiunque», sentenzia Ahmed.
Altri migranti li incontriamo al barrio del Príncipe Alfonso, che tutti chiamano più semplicemente “Príncipe”, il ghetto arabo di Ceuta e primo rifugio per chi è riuscito a passare il confine. Da qui salperanno per Algeciras o Gibilterra, per poi dirigersi verso Marsiglia, Francoforte o Göteborg. Non tutti ci riescono, però. Non ce l’ha fatta il piccolo Abu, per esempio, inscatolato dal padre in un trolley ma scoperto dai doganieri grazie ai raggi X. Né ce la fa la maggioranza di chi, a rischio della vita o quantomeno di spaccarsi le gambe, tenta di scalare le recinzioni di filo spinato, alte come palazzi di quattro piani, che proteggono l’enclave. «Per loro, penetrare a Ceuta è sempre più difficile», aggiunge Ahmed, che per i migranti nutre una curiosa empatia, considerandosi lui stesso un migrante saltuario.
L’Europa ha recentemente stretto un patto con il Marocco chiedendogli di tenersi questi reietti, magari regolarizzandoli, in cambio di maggiori aiuti allo sviluppo. E per arginare il flusso di africani verso le coste del Vecchio Continente, la settimana scorsa i ministri dell’Interno spagnolo e marocchino hanno deciso di intensificare la loro collaborazione. L’altra spinosissima questione su cui si sono intrattenuti i due è stato proprio il Príncipe, il più povero e più pericoloso quartiere di Spagna.
Per arrivarci saliamo sull’8, perché nel malfamato barrio non osa avventurarsi nessun taxi dell’altra Ceuta, quella ricca e cattolica, dove abbondano boutique di lusso e oligarchi russi. Una volta al capolinea scopriamo un formicaio di casette fatiscenti, così malmesso da non sembrare neanche un quartiere occidentale, sia pure misero e di periferia, ma piuttosto la bidonville di una nazione del Terzo o Quarto mondo. Non ci sono commissariati nel barrio, e la polizia vi penetra solo in assetto anti-sommossa. E non vi trovi né ristoranti, né farmacie di guardia. «L’altra notte è entrato un blindato della Guardia Civil . S’è subito sparsa la voce e decine di giovani hanno scatenato una violenta sassaiola che ha costretto il mezzo a fare retro marcia», aggiunge Ahmed.
Ma come spiegare un’intifada così spontanea? Lo chiediamo a uno dei pochissimi che accetta di rispondere alle nostre domande, l’attivista ventinovenne Mohamed Aziz. «Qui è morta la speranza, anzitutto per colpa dell’apartheid di cui siamo vittime. Nel nostro quartiere la povertà funesta l’80 per cento della popolazione, l’abbandono scolastico raggiunge il 90 per cento e il tasso di disoccupazione è il doppio della media nazionale. La gente non parla neanche lo spagnolo ma un locale dialetto arabo. La situazione è totalmente sfuggita di mano alle autorità, creando le condizioni ideali prima per il narcotraffico e adesso per il jihadismo. Ovviamente, l’arrivo dei migranti non facilita le cose », spiega l’attivista.
Se disoccupazione e povertà sono l’humus più fertile per l’integralismo islamico, la solidarietà musulmana va spesso di pari passo con il proselitismo religioso o, peggio, con il reclutamento terrorista. E al Príncipe, dove per 12mila abitanti si contano 90 imam e una quindicina di moschee, negli ultimi anni sono state arrestate 54 persone per terrorismo. Dice ancora Mohamed Aziz: «La polizia non immagina a che punto i nostri giovani si stiano radicalizzando. I loro eroi sono quelli partiti a combattere in Siria o in Iraq». Uno di questi si chiamava Rachid Wahbi: faceva il tassinaro al Príncipe fino al giorno in cui scomparve per andare a irreggimentarsi nelle brigate Al Nusra. Nel luglio 2012, andò a schiantarsi con un camion pieno di esplosivo contro una caserma a Idlib. In quell’attentato morirono oltre 100 persone.