lunedì 11 maggio 2015

Repubblica 11.5.15
La trappola del populismo
di Stefano Folli


NON stupisce che Maria Elena Boschi abbia criticato con asprezza i sindacati della scuola. Lo sciopero degli insegnanti, l’altro giorno, era un colpo mirato al governo, rispetto al quale Renzi e i suoi non potevano non replicare. Per cui non bastava la frase tipica del decisionismo renziano («noi ascoltiamo tutti, ma andiamo avanti per la nostra strada»).
LA Boschi dice infatti qualcosa di più: «La scuola in mano ai sindacati non può funzionare». Al di là delle scelte dei governi, sono loro, i sindacati, a essere privi di un’idea generale idonea a far progredire il sistema scolastico.
Ecco allora un tema per la campagna elettorale regionale, emblematico della fisionomia che il Pd verrà ad assumere nel prossimo futuro. Il «renzismo» non può permettersi di cedere di fronte alla logica sindacale. In fondo il laburista Miliband ha perso in Gran Bretagna anche perché ha riproposto la vecchia visione sindacato-centrica della sinistra inglese. Quella dalla quale Tony Blair si era già affrancato nei suoi anni a Downing Street. A Roma gli attacchi politici del premier alla minoranza «perdente» dei Bersani e dei D’Alema portano con sé, come è inevitabile, una crescente presa di distanza dal sindacato: nella scuola, ma anche in ogni altro settore. Sono due facce della stessa medaglia.
Del resto, la sinistra tradizionale — quella che a Londra sarebbe vicina a Miliband — non si è ancora attrezzata per costruire un punto di riferimento anti Renzi che sia più consistente del vecchio Sel di Vendola. Forse un giorno arriverà a definire uno spazio elettorale simile a quello in cui sopravvive in Germania la “Linke”, al di là della socialdemocrazia. Ma per ora Cuperlo, Fassina, Civati e gli altri — chi all’interno del Pd e chi ormai fuori — hanno di fronte una lunga strada. Questo non significa che la campagna elettorale si presenti semplice per Renzi. La scuola, il buco delle pensioni da coprire al più presto, le cifre della disoccupazione sono altrettante incrinature nel blocco sociale che dovrebbe sostenere il presidente del Consiglio. C’è ancora vento nelle sue vele, ma non è più la brezza vigorosa e contagiosa dello scorso anno.
D’altra parte, come ha cominciato la campagna il principale avversario del partito del premier? I sondaggi dicono che al secondo posto nelle intenzioni di voto c’è ancora Grillo, favorito dal dissesto dell’area Berlusconi. Certo, i sondaggi non vivono una stagione felice, ma i Cinque Stelle sembrano oggi essere, con un consenso al 19-20 per cento, il principale collettore del malessere o dello scetticismo che serpeggia nel Paese: più della Lega di Salvini che pure oscilla intorno a un significativo 14 per cento. Eppure Grillo sta impostando la sua rincorsa al voto di fine maggio in modo sconcertante. Da un lato, ha lanciato il tema del reddito di cittadinanza. Dall’altro, lo ha oscurato egli stesso sovrapponendogli un violento e incomprensibile attacco al professor Veronesi, il notissimo oncologo, figura fra le più popolari e rispettate in Italia. È come se Grillo avesse scelto di occupare le pagine dei giornali con le sue bizzarre accuse (le «mammografie» prescritte non per la salute dei pazienti, ma per finanziare l’istituto dei tumori) anziché con l’iniziativa sulla cittadinanza. Forse perché ritiene che quest’ultima sia troppo debole e inadeguata per raccogliere l’attenzione dell’elettorato. O forse perché pensa di riempire le tre settimane di fronte a lui con fuochi artificiali ed effetti speciali volti a scandalizzare. Quindi si riaffaccia il solito dilemma. I Cinque Stelle si muovono sulla scena pubblica come se fossero sempre sull’orlo di una crisi definitiva: di idee, di proposte, di leadership. Eppure, a dar retta ai sondaggi, circa un italiano su cinque — fra quelli che si esprimono — sarebbe pronto a votarli di nuovo. È un elemento di riflessione per le altre forze di opposizione. Ma anche Renzi dovrà essere consapevole di quanto sono diffusi l’inquietudine sociale e il disincanto. La guerra contro il populismo è tutt’altro che vinta.