lunedì 11 maggio 2015

Repubblica 11.5.15
Raul Castro in Vaticano
Ma dietro quella pecorella smarrita le mosse di un politico abile
di Norberto Fuentes

NON è la prima volta che Fidel e Raúl Castro si prostrano in ginocchio davanti alla Chiesa. In effetti, è una cosa che hanno praticato fin dall’infanzia. Cinque o sei anni fa, poco prima che morisse a, Miami, incontrai per caso in un ristorante, mentre mangiava una succulenta fabada, il sacerdote gesuita padre Armando Llorente, il quale mi raccontò che in una gita campestre con i suoi alunni di famiglie ricche di Belén rischiò di affogare in un fiume e fu Fidel a gettarsi in acqua e a salvarlo. Ormai sulla riva, ansimanti ed esausti, l’eroico Fidel non accettò le frasi di gratitudine del suo mentore e gli chiese invece di inginocchiarsi entrambi per pregare. Anche suo fratello, meno spirituale, o forse meno propenso a quei colpi di scena, fu alunno di Llorente. Ma all’inizio della rivoluzione apparve alla televisione cubana a confessare che, secondo i suoi insegnanti gesuiti, “non avrebbe mai combinato niente di buono”. Due modi di esprimersi... ma obiettivi diversi?
Già dal gennaio del 1959, dopo aver inflitto un’umiliante sconfitta all’esercito di Batista, Fidel sapeva con chiarezza quali erano i due nemici principali che avrebbe dovuto affrontare: gli americani e la Chiesa. In altre parole, nei termini di nonno Marx, gli sfruttatori stranieri e la chiesa al loro servizio. (Padre Llorente, come si vede, non riuscì mai a decifrare che cosa si annidava nell’anima del giovane che, tremando e ansimando, gli chiese con fervore di ringraziare Dio, sulla riva di un fiume.) Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. La Chiesa, da quando sbarcarono i preti con i primi colonizzatori spagnoli, è stata al servizio delle classi dominanti ( ach, Karl!). La sua missione spirituale si riduceva a benedire l’inaugurazione di nuove proprietà e a presentarsi puntualmente ai falò dove i conquistatori mettevano al rogo qualche cacicco ribelle o nei fossati di La Cabaña dove avrebbero spezzato il collo a qualche patriota cubano con la garrota. La questione era che si pentissero dei loro peccati. E in più era una Chiesa con lo stesso livello morale di un vaudeville. Era noto che Héctor Duarte era l’amante del cardinale Manuel Arteaga e che gli portò via l’anello cardinalizio per ottenere dei soldi in fretta in un istituto di pegni, ma prima aprì la testa calva del vecchietto con quello stesso anello. Ebbene, è stata un’alleanza indistruttibile che ha sempre agito nell’interesse di minare e affrettare la polverizzazione della Ri- voluzione cubana. Ma nel 1961 tutti i sacerdoti furono espulsi e dal gennaio di quell’anno si interruppero le relazioni con gli Stati Uniti. Furono lenti a produrre un cambiamento, o almeno ad ottenere alcuni risultati, a parte che fu sorprendente e fuori dal comune lo spirito di resistenza cubano di fronte alle vicissitudini imposte dal blocco economico e dalle minacce militari. Questo non toglie che fosse un popolo ancora capace di scherzare e perfino di divertirsi nonostante le difficoltà e la penuria. Con un entusiasmo da carnevale eravamo soliti dire che a Cuba ciò che non era proibito, era obbligatorio. Era una interpretazione popolare della “necessità tattica” che a volte le autorità dovevano mettere in atto, di alcune misure repressive, o per dirla più amabilmente, di profilassi sociale. È il caso della persecuzione degli omosessuali (improvvisamente trasformati in potenziali nemici del comunismo) e del divieto per i giovani cattolici di studiare all’università. E se ti eri già intrufolato e ti scoprivano, l’espulsione era immediata e senza appello. Ricordo una notte a casa mia, intorno a una bottiglia di rum, in cui c’era un militare di alto grado mio amico, il generale Roberto Escalante, capo della Direzione politica del ministero degli Interni, e l’irriverente poeta Raúl Rivero, e Raúl, che non aveva bevuto poco, disse: «Accidenti, Roberto, io sono disposto a tornare alla Chiesa e a fare la comunione se la Rivoluzione me lo chiede, ma allora mi obblighino anche a toccare la vianda a un compagno!». Per i neofiti: vianda è uno dei tanti vocaboli cubani per designare il membro virile.
Bene, siamo giunti al giorno radioso del ritorno all’ovile. Perché Raúl Castro ha appena detto a Roma, dopo l’incontro riservato con papa Francesco, che “... se il papa continua così, mi rimetterò a pregare e tornerò alla Chiesa, e non lo dico per scherzo”. Non so se vi rendete conto che è Raúl Castro quello che sta concedendo il perdono. Certo, non smette di essere un Castro Ruz. Non lo dico in senso peggiorativo. Non c’è altro meccanismo di comando possibile in un’evoluzione che avviene oltre tutto su una popolazione fino a ieri ignorante, indisciplinata, sporca e molto affamata. Sicuramente se i cubani oggi sono persone diverse non lo devono a Dio. Ma, come con i suoi accordi con il presidente Obama, nella sua intesa iniziale con papa Francesco Raúl Castro non ha concesso nulla. A meno che non si consideri che parlare e fare degli elogi sia una sorta di concessione strategica o politica.
Non vedo nulla di nuovo, ve lo confesso. Un giorno, nel 1996, appena arrivato in esilio, fui invitato a tenere una conferenza nel cosiddetto «centro commerciale» della CIA. Sì, a Langley in Virginia. L’anfiteatro era pieno. E quasi tutte le domande dei presenti furono per capire come valutassi le possibilità della Chiesa a Cuba. Ah, pensai, la vecchia alleanza si sveglia. Rivive l’asse Washington-Roma. «Tutte quelle che volete — ricordo che dissi — ma dopo la vostra capitolazione».
Insomma, l’unica novità possibile in questa notizia non è che Raúl Castro torni alla preghiera. È che papa Francesco chieda di essere ammesso nel Partito Comunista.
traduzione di Luis E. Moriones ( Norberto Fuentes è uno scrittore cubano. Per anni vicino ai Castro, nel 1-996 ha scelto l’esilio)