Repubblica 10.5.15
L’incontro. Esuli
il regista di “Timbuktu” Abderrahmane Sissako
di Mario Serenellini
IN AFRICA LA NOSTRA VITA NON ERA FATTA DI LIBRI, CINEMA E MUSEI QUEL CHE MI APPARTENEVA, LE DONNE CHE DANZAVANO IN STRADA, I COSTUMI CUCITI DA MIO ZIO, QUI NON VALEVANO NIENTE
IL FANATISMO È UNO STRAPPO CHE APPARTIENE A NOI, MUSULMANI EDUCATI ALL’AMORE PER L’ALTRO. L’ISLAM È IL PRIMO OSTAGGIO DEI TERRORISTI CHE LO STRAVOLGONO PER LE LORO STRAGI
I SAPUTELLI MI METTEVANO SEMPRE DAVANTI AI MIEI LIMITI. AVREI VOLUTO GRIDARE: EHI, NON CONOSCO BACH, MA OUM KALTHOUM E DIMI MINT ABBA, LEI MI HA CULLATO QUANDO ERO PICCOLO!
A fare film ci è arrivato per vie traverse. Da ragazzo lasciò il Mali per la Mauritania dove scoprì la grande letteratura russa. Di qui il passo per l’Urss fu relativamente breve, e a diciannove anni si ritrovò a Mosca a studiare cinematografia: “Io credevo che Truffaut fosse una marca di cioccolatini francesi, quelli mi imbottirono di Neorealismo e Nouvelle Vague. Fu veramente dura”.
Ora il regista di “Timbuktu”, una nomination agli Oscar e sette César vinti, può dire di aver brillantemente passato quel vecchio esame sovietico: “Ma la mia soddisfazione è un’altra: non sono mai diventato un cinefilo”
Dopo nove anni (dall’80 all’89) alla Vgk, di esilio in esilio sarà Parigi la nuova patria e la neo-culla in celluloide di un autore che oggi, dopo Timbuktu, candidato all’Oscar e premiato — prima volta per un regista “nero” — con ben sette César (gli Oscar francesi), è considerato uno dei massimi cineasti africani,
UNICO MONUMENTO davanti al quale mi raccoglierei non è quello al Milite Ignoto ma, se mai esistesse, all’Esule Anonimo». Abderrahmane Sissako, africano diPa-rigi, ama sventagliare questa piccola bandiera, assunta fin da quando, esule a diciott’anni, lasciò il Mali per la Mauritania: «Periodo terribile. Passavo le mie giornate a giocare a ping-pong al Centro culturale sovietico. Per via degli aiuti al Terzo mondo, l’Urss era molto presente in Africa negli anni Settanta. Ed è lì che comincia la mia avventura cinematografica, quando un giorno il direttore mi propose di prendere in prestito dei libri della biblioteca. Cosa c’entrano i film? Ora le spiego. La lettura era rimasta fino allora un’emozione rinviata per me, come una pagina in ombra. Ma in quel periodo ero talmente giù che chiesi un libro su una vita difficile. Scoprii così Dostoevskij. Nella biblioteca del Centro culturale non c’erano solo opere di propaganda, ma tutta la grande letteratura russa: Gogol, Gorky, Pushkin, Andreev, Lermontov, Cechov, Tolstoj… Li ho divorati tutti, tutti difficili e appassionanti». E la Russia, ovvero l’Urss, diventò così la sua nuova patria: «Diciamo il mio nuovo orizzonte: dove avrei voluto crescere e conoscere. Ottenni una borsa di studio per “l’Università dell’amicizia dei popoli” e entrai nell’ambitissima scuola di cinema di Mosca, la leggendaria Vgk. Fu così che a diciannove anni mi trovai a studiare cinema in Unione Sovietica, il paese in cui fare il cineasta era un sogno collettivo. Praticamente come fare il cosmonauta accanto a Ousmane Sembène, Souleymane Cissé, Idrissa Ouédraogo, Djibril Diop Mambéty. L’elegante sciarpa di seta azzurra avvolta su t-shirt e giacca nera, il volto profondamente segnato al riparo degli occhiali fumé, il regista frena la commozione quando parla del film sulla cittadina del Mali caduta per un anno, nel 2012, nelle mani dei jihadisti. Come se parlasse di sé, di una vita ferita nell’incubo d’ignoranza e fanatismi che solo l’esilio salva e riscatta: «La lotta alla barbarie è stata, a Timbuktu, la rivolta silenziosa della popolazione che s’è impressa nella mente e nel cuore la musica diventata proibita». Come i libri imparati a memoria in Fahrenheit 4-51.
«Sì, e anche in questo caso è stata una resistenza compatta, un ottimismo solidale. È facile diventare indifferenti all’orrore: in quei giorni internet s’inorgogliva per l’ultimo modello di smartphone, mentre, ignorate, centomila persone erano sotto il giogo islamico. Il dovere di un cineasta è di assumere come propria la realtà degli altri e, insieme, ristabilirne i termini. Partendo da un semplice dato di fatto: i nostri carnefici sono nostri simili, anch’essi scossi da dubbi e debolezze. Voglio dire che anche il cieco sanguinario è prima di tutto un essere umano, e che prima di uccidere è stato un bambino. Così pure l’islam non è jihadismo. E viceversa. L’islam è il primo ostaggio dei terroristi che lo stravolgono per le loro stragi. È uno strappo che appartiene innanzitutto a noi, noi musulmani, educati all’amore per l’altro, alla condivisione di valori universali. Nel Corano, il profeta indica quale unica differenza tra un cristiano e un musulmano il loro grado di fede: un modo per dire che siamo tutti uguali. Anche questi princìpi sono presi ora in ostaggio». C’è una gazzella, che fugge all’inizio del film e continua a fuggire alla fine, inseguita dall’ostinata ferocia umana: «È la vita in fuga che traspare dal viso di due vittime innocenti (interpretate da Layla Walet Mohamed e Toulou Kiki, ndr), figlia e moglie del candido tuareg condannato a morte». I veri esuli sono quelli che tornano sempre, anche senza tornare. Domandiamo: Timbuktu è anche un atto d’amore e ribellione per il suo paese d’origine? «Forse, vorrà dire che anch’io sono un esule che non è mai partito di casa».
Nel film di Sissako — nei giorni scorsi a Milano come presidente della giuria del Festival del cinema africano, e tra poco a Cannes come presidente della giuria dei Corti — fioccano anche inattese citazioni, tipo la sequenza dei ragazzini che giocano a calcio (proibito dai jihadisti) con un pallone invisibile, come nella partita a tennis alla fine di Blow Up. Un rigurgito di cinefilia? «Macché. Se c’è un regista, ancora oggi, a cinquantaquattro anni, senza una solida cultura cinematografica, quello sono io. Certo, a Mosca mi avevano imbottito di Neorealismo, Nouvelle vague, Nuovo cinema tedesco, Cassavetes, John Ford…Ma venivo comunque da un paese dove non si realizzano film e non ci sono sale. E quelle poche proiettavano kung-fu, Bollywood e spaghetti western: specie la serie di Trinità con Bud Spencer e Terence Hill. Il vero spettacolo era in platea, dove il pubblico si alzava di botto, tutti insieme, a sostegno dell’eroe, solo contro tutti. Tanto che mi ero convinto che il western fosse il genere di maggiore impatto sociale. Non avevo, d’altra parte, che i tre Trinità da citare quando ho affrontato l’esame d’ammissione alla grande scuola sovietica: gli esaminatori mi guardarono allibiti. Okey, avevo visto anche il peplum italiano, I sette gladiatori e Il monello — dove mi ero addormentato — ma la cosa non parve colpire positivamente i miei esaminatori. Del resto l’esame stesso era una babele: sudamericani, afgani, vietnamiti, arabi. Chi recitava poesie, chi suonava la chitarra. Io mi sentivo perso: è così che si diventa artisti? Non lo sarei mai stato. Alla fine furono anni di vero apprendimento e grandi umiliazioni. I saputelli non mancavano mai di mettermi davanti ai miei limiti. Non avevo cultura. Non conoscevo i registi o i pittori sui quali ci interrogavano. Per me Truffaut era una marca di cioccolato francese. Bergman? Antonioni? Illustri sconosciuti. In Africa la vita non era fatta di libri e musei. Quel che mi apparteneva — le donne che danzavano in strada, i costumi che cuciva mio zio — a Mosca non valevano niente. Avrei voluto urlare: “Non conosco Bach, ma Oum Kalthoum e Dimi Mint Abba, la cantante più grande della Mauritania, è stata lei a cullarmi da piccolo!”. Comunque il fatto che alla fine mi abbiano preso prova che si può arrivare a fare un mestiere anche senza esserne obbligatoriamente malati. E dunque, per tornare alla sua domanda, la risposta è no: non ero cinefilo e continuo a non esserlo». Ritentiamo. Ma come nasce il suo desiderio di cinema? «Non dal cinema, ma da mia madre. E dal fratello che non ho mai conosciuto. Meglio: dall’evocazione quasi quotidiana di mia madre del suo primo figlio». Pare la replica dell’infanzia di James M. Barrie, l’autore di Peter Pan, ossessionato da bimbo dall’angoscia della madre per la perdita del figlio prediletto: «Sì, forse è un po’ così. Le spiego. Mio fratello era nato da un rapporto precedente avuto da mia madre con un algerino che l’ha portato con sé nel suo paese. Mia madre l’ha atteso sempre. Non è mai tornato. E lei non ha mai smesso di parlare di questo Chérif, che cresceva lontano. Per me, ultimo nato di un’ampia nidiata, era diventato un mito, ravvivato di tanto in tanto da una lettera, da una foto in bianco e nero. Finalmente, un giorno, avvenne il fantomatico incontro tra mia madre e lui, a Dakar. Mamma tornò a casa dicendo: “Chérif studia cinema a Mosca, girerà dei film”. Nessuno l’ha mai più visto. Ma quel giorno capii che cosa avrei fatto io della mia vita. Se volevo far piacere a mia madre, prendere il posto di quel figlio di cui lei parlava ogni giorno, dovevo girare dei film»