La Stampa TuttoScienze 27.5.15
Tutta l’etica in una “pillola”
I dilemmi scatenati da psicofarmaci e stimoli neurali
di Elisabetta Sirgiovanni
Esperti dell’American Medical Association e dell’American Psychological Association portano dati neuroscientifici a sostegno dell’immaturità cerebrale di Simmons all’epoca dei fatti. La sentenza è quindi convertita in ergastolo, ma con la possibile liberazione condizionale dopo 20-25 anni di detenzione. Simmons, oggi ventisettenne, sta scontando la pena al Potosi Correctional Center. Sentenze più recenti (come Graham vs Florida del 2010, Miller vs Alabama e Jackson vs Hobbs del 2012) proibiscono infatti condanne senza libertà condizionale per gli adolescenti.
È noto che durante l’adolescenza - un periodo caratterizzato dalla ricerca di novità, dal distanziarsi dai genitori e dall’interazione con i coetanei - il cervello è soggetto a forti cambiamenti. Se le regioni evolutivamente più antiche si sviluppano prima, a maturare più tardi sono le aree prefrontali, cruciali per giudizio, ragionamento e decisione e che consentono perciò la regolazione del comportamento e l’autocontrollo. Mentre conosciamo i deficit sociali che le lesioni in queste aree comportano, sappiamo anche che la loro maturazione non si conclude, in media, prima dei 20-24 anni e uno studio su «Developmental Neuroscience» identifica una «curva d’età criminale», con un picco intorno ai 17 anni e una discesa negli anni successivi. In questa fase le regioni emotive dello striato frontale limbico sono incredibilmente attive e maggiormente suscettibili sotto l’influsso dei coetanei. Parallelamente, gli studi sulle basi genetiche del disturbo antisociale hanno rivelato che queste si esprimono soprattutto in caso di maltrattamenti durante l’infanzia e l’adolescenza.
Ora che la giustizia si ammorbidisce, si affaccia intanto la possibilità di impiegare le neurotecnologie per i casi estremi, per esempio con psicofarmaci o stimolazioni neurali: dobbiamo quindi intervenire biologicamente per correggere i «cattivi ragazzi»? In Gran Bretagna l’ipotesi è già stata valutata istituzionalmente, sia all’epoca dei tumulti londinesi del 2011 sia in una ricerca del 2012 sui giovani detenuti con traumi cerebrali. I filosofi di Oxford Julian Savulescu e Ingmar Persson, autori di «Unfit the future: the need for moral enhancement», si sono dichiarati a favore degli interventi neurotecnologici come risposta a una presunta catastrofe imminente, visti i fallimenti della psicologia morale naturale.
Il bioeticista John Harris, che incita i genitori a potenziare farmacologicamente i figli per garantire loro più opportunità, osteggia invece il «potenziamento morale»: un conto è migliorare le capacità di scelta per distinguere il bene dal male - sostiene - e un altro è imporre uno standard morale. Sarebbe una limitazione della libertà. In più, i dati su quali interventi effettuare e quali siano i rischi in soggetti con strutture cerebrali in sviluppo sono controversi. Allo stesso modo restano controverse le potenzialità dell’educazione tradizionale, sebbene i fautori del «biopotenziamento» non le neghino. È quindi evidente che, rispetto al potenziamento per competizione o per diletto, quello morale implica una forma di coercizione e in quanto tale è opinabile, così come il concepirlo sotto forma di misura preventiva. Si tratta di problemi aperti: su questi ci si dovrà interrogare. Dalle famiglie ai professionisti dell’educazione e della giustizia.