martedì 26 maggio 2015

La Stampa 26.5.15
“Impossibile fermare gli immigrati. Dovete rassegnarvi”
Lo scrittore etiope-americano Dinaw Mengestu pubblica in Italia il romanzo Tutti i nostri nomi “La società occidentale non sarà più quella di prima”
di Paolo Mastrolilli


Scuote la testa coperta dai riccioli afro, Dinaw Mengestu: «E’ solo un’illusione. Nulla di più». Poi spiega: «E’ illusorio pensare di poter fermare il flusso dei migranti bloccandoli sulle coste libiche, così come immaginare di costruire un muro che li tenga fuori dall’Europa o dall’America, perché sono già dentro. L’idea di conservare una cultura unitaria ormai è andata, finita, ovunque nel mondo. La soluzione a questi problemi epocali è solo una: da parte dei Paesi ricchi, riconoscere la discriminazione che praticano e cercare di accettare meglio gli altri; da parte delle comunità di immigrati, riconoscere l’esistenza al loro interno dell’estremismo e contrastarlo».
La storia di Dinaw sembra fatta apposta per discutere il tema che sta scuotendo il mondo, dai barconi di disperati che affondano nel Mediterraneo, ai somali che si uniscono all’Isis in Minnesota, passando dagli algerini che fanno strage nelle strade di Parigi.
Mengestu è nato in Etiopia, da un padre che da giovane aveva vissuto in Italia, amando l’ex occupante del suo Paese. A due anni è andato a vivere in Illinois, trasformandosi in americano, finché ha deciso di trasferirsi in Francia, dove si è sposato e ha avuto due figli. Quindi è tornato negli Usa, per fare il professore di letteratura alla Georgetown University, e lungo la strada è diventato uno dei romanzieri emergenti più apprezzati negli Usa. Ora arriva in Italia con Tutti i nostri nomi, pubblicato da Frassinelli, che racconta la storia di Isaac ed Helen alla fine degli Anni Sessanta. Lui è un ragazzo etiope scappato dalla guerra civile in Uganda; lei un’assistente sociale annoiata, nel villaggio segregato del Midwest dove Isaac viene accolto come rifugiato. Si innamorano, e ci fermiamo qui.
Perché l’Africa e gli Usa di mezzo secolo fa?
«Vivevano due momenti simili. L’Africa, superata l’era coloniale, era un luogo ottimista che immaginava il proprio futuro; l’America, grazie al movimento per i diritti civili, stava attraversando una stagione cruenta, ma piena di speranze. Situazioni speculari, anche negli esiti».
Nel senso che hanno fallito entrambe?
«Fallito è troppo. Diciamo che poi hanno scoperto come i problemi fossero più complessi di quanto credevano: l’Africa, precipitando nel vortice delle dittature e le guerre civili; l’America, realizzando che le discriminazioni non erano finite, come dimostrano le rivolte razziali che scoppiano ancora oggi».
Aver eletto il primo presidente nero non è servito?
«Non è bastato, e non poteva bastare, perché si tratta di problemi molto più grandi di una singola persona».
L’Africa che non è riuscita a costruire la propria stabilità è anche quella che oggi manda migliaia di migranti verso l’Europa, spesso a morire lungo il viaggio. Cosa dovremmo fare?
«L’Europa ha un enorme debito verso l’Africa, ma mi preoccupo sempre quando sento dire che deve intervenire nel continente, perché la storia di Paesi come la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia è una storia di responsabilità mancate. Non penso che si debba chiedere all’Europa di aprire completamente le sue porte, perché non è preparata a farlo, e perché non vorrei dare altre scuse ai partiti di destra per alimentare la loro xenofobia. Non credo neanche che si possa cambiare rapidamente la situazione nei Paesi di provenienza, perché con una dittatura come quella in Eritrea come ti comporti? Invadi il Paese? E’ inutile, poi, cercare di fermare i migranti sulle spiagge della Libia, perché sono così disperati che troveranno un’altra strada. Così come è inutile costruire un muro per proteggere la fortezza Europa, perché gli immigrati sono già dentro e la vostra cultura non sarà mai più come prima».
Non c’è nulla da fare, insomma?
«Nell’immediato, intervenire lungo le rotte delle migrazioni, per aiutare le persone prima che arrivino sulla costa. Poi ricollocare i profughi altrove, che non significa solo in Europa, perché ci sono anche luoghi in Africa dove possono andare. Quindi, nel lungo termine, affrontare le cause del fenomeno, che sono soprattutto il fallimento delle istituzioni e la povertà estrema».
Ora il fenomeno si è saldato anche col terrorismo. Lei ha vissuto in Francia: come si arriva ad una strage come Charlie Hebdo?
«Io ho abitato a Parigi come americano, e quindi non ero percepito come una minaccia: ero un espatriato che non voleva diventare francese, e prima o poi sarebbe tornato a casa. Intorno a me, però, vedevo immigrati di terza o quarta generazione ancora emarginati. Una sottoclasse perennemente esclusa. L’Europa deve capire che il mondo è cambiato e accettare queste persone, altrimenti è inevitabile che si radicalizzino».
E le loro comunità non hanno responsabilità?
«Certo. Devono riconoscere che hanno un problema grave di estremismo e contrastarlo, per aiutare poi la parte illuminata della società europea ad accettarli davvero».
Trasferiamoci negli Usa: non è la stessa esperienza che lei ha vissuto in America?
«Nel paese dell’Illinois dove sono cresciuto, la mia era l’unica famiglia nera che frequentava la chiesa battista locale. Una volta uno ci disse: non mi piacciono i neri, ma voi siete diversi. Venivamo dall’Africa, e quindi non rientravamo nello stereotipo del nero americano oggetto di razzismo».
Adesso però c’è la paura del terrorismo, ad esempio l’allarme per l’Isis che recluta nella comunità somala del Minnesota.
«Certo. Si tratta di cinque ragazzi, ma bastano a cambiare la percezione di un’intera comunità. La verità è che il terrorismo sta diventando la scusa per emarginare persone già invise per la loro razza. La differenza, negli Usa come in Europa, è che adesso per i giovani c’è l’attrattiva di questo Stato Islamico, che non è solo un’idea di ribellione, ma un luogo fisico dove possono andare a vivere la loro idea».
Impossibile difendersi?
«Sì, accettando che il mondo è cambiato. Nei Paesi sviluppati, che devono capire come l’era della cultura omogenea sia finita, e nelle comunità degli immigrati, che devono riconoscere e sradicare l’estremismo al loro interno».