La Stampa 25.5.15
Un genio perso più volte dentro se stesso
L’ultimo incontro: non rispondeva alle domande, si svelava indirettamente con le battute
di Gabriele Beccaria
John Nash odiava il suo doppio hollywoodiano. Guai a provocarlo con il nome, per lui impronunciabile, di Russell Crowe. Bastava evocare la frase A Beautiful Mind e i suoi occhi tristi si velavano di fastidio. Quell’attore, osservava, «non mi somiglia proprio».
La sua rabbia era una forma di silenzio e il senso di impotente disagio che ti comunicava era come una frecciata al cuore. Nash, come tanti altri geni, si è perso molte volte dentro sé stesso. Dentro una mente affollata di numeri e di teoremi, percorsa dalle allucinazioni della schizofrenia, segnata dall’angoscia per un figlio problematico, increspata dalla difficoltà di capire la normalità altrui e di gestire le invidie dei colleghi.
Nash ha vissuto molte vite, che considerava il suo tesoro segreto e che non voleva svelare a nessuno. Quando lo incontrai nel 2008, in occasione del Festival della Matematica di Roma, fu cortese e paziente. Non si fece intervistare, ma scelse di scompaginare i veli della sua timidezza e di parlare a tratti, a bassissima voce, saltando da un pensiero all’altro. Non rispondeva direttamente alle domande, ma ammucchiava osservazioni e battute. Solo dopo un po’ capii che era il suo modo di svelarsi.
Il mondo lo stupiva e Obama, i mutui o la Cina diventavano di colpo variabili complesse di sistemi globali. Sembrava, anche in quel momento, davanti a un giornalista irretito dai bagliori di una mente più che «beautiful», impegnato a inseguire un senso e delle logiche. D’altra parte aveva fornito alcune chiavi fondamentali alla Teoria dei giochi, tanto citata e tanto equivocata. Solo per specialisti, certo, ma nelle sue conseguenze filosofiche capace di evocare il gioco feroce delle esistenze individuali e il gioco infinito dei dilemmi collettivi. «L’equilibrio», spiegò, «si raggiunge quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento: per cambiare si deve agire insieme». E a proposito di teoremi aggiunse: «La Teoria dei Giochi, io, non la applico a me stesso. È sempre meglio rispondere alle domande stabilendo un rapporto tra ciò che si dice e ciò che si pensa sia meglio per sé».
Nash aveva già il Nobel alle spalle e, a 80 anni, sembrava un ragazzo sul punto di uscire dal proprio labirinto. E quasi divertito di avere di fronte uno qualunque, in quel momento perfino più timido di lui.