sabato 23 maggio 2015

La Stampa 23.5.15
“Un’armata di 22 mila stranieri, più forte di quella che sconfisse i sovietici in Afghanistan”
Rapporto riservato della Casa Bianca: kamikaze inarrestabili
di Paolo Mastrolilli


«Non abbiamo mai visto una roba come questa». La voce del funzionario del Dipartimento di Stato, che l’altro giorno ha tenuto un briefing riservato con i giornalisti sulla caduta di Ramadi, è più che preoccupata. Sarebbe meglio definirla sconsolata. Il presidente Obama ha detto che «non stiamo perdendo»: gli episodi di Ramadi e Palmira sono stati solo un incidente nel percorso di una lunga campagna. Ma l’impressione che si ricava dal briefing con questo alto funzionario, che lavora sul terreno in Iraq e Siria, e ha partecipato al vertice del Consiglio per la sicurezza nazionale tenuto alla Casa Bianca la sera della caduta della città nella provincia di Al Anbar, è diversa.
Come a Oklahoma City
La prima cosa che impressiona è la forza usata dall’Isis. Durante l’assalto finale sono state impiegate 30 Vbied, ossia autobombe guidate da jihadisti kamikaze. Di queste, almeno 10 avevano la stessa potenza esplosiva usata da Timothy McVeigh nel suo attentato a Oklahoma City. Significa che una trentina di militanti del califfato si sono immolati per dare il colpo finale agli avversari, e «hanno fatto saltare in aria interi quartieri». Azioni che potrebbero ripetere «nelle capitali dei Paesi alleati».
Il secondo problema è la quantità e la provenienza dei terroristi, e questo è l’elemento che ha spinto il funzionario del Dipartimento di Stato ad ammettere di non aver mai visto nulla di simile. L’Isis, secondo le stime dell’intelligence americana, può contare ora su almeno 22.000 combattenti stranieri, arrivati da un centinaio di Paesi diversi. «Per dare un contesto a questo numero, immaginate che si tratta del doppio dei mujaheddin andati in Afghanistan durante l’intero periodo di dieci anni della lotta contro le truppe di occupazione dell’Urss».
Detto questo, il problema ora è come fronteggiare una forza che minaccia di conquistare l’intero Iraq e la Siria. Obama ha detto che non intende mandare altri soldati americani, perché «se gli iracheni non vogliono combattere per il loro Paese, non saremo noi a poterlo fare». Il funzionario del Dipartimento di Stato non ha escluso altre operazioni delle forze speciali, come quella lanciata in Siria contro Abu Sayyaf, ma ha detto che il capo degli Stati Maggiori riuniti Dempsey non le ha richieste, e durante il Consiglio alla Casa Bianca non se n’è parlato.
E’ stato invece deciso l’invio immediato all’esercito regolare di 1.000 razzi anti-carro, da usare contro le autobombe per distruggerle prima che esplodano. Il fatto positivo, secondo l’alto funzionario, è che la forze irachene non si sono squagliate come a Mosul. Si sono ritirate, perché stavano perdendo, ma si sono raggruppate e stanno preparando la controffensiva. Gli elementi su cui ci si basa ora per evitare la caduta di Baghdad, e magari riprendere Ramadi, sono quattro: i soldati della Settima divisione che si sono ritirati; i circa 8.000 volontari delle tribù sunnite della regione che vogliono combattere l’Isis, e il premier Abadi intende armare; i 24.000 poliziotti di al Anbar che avevano disertato, ma sono stati amnistiati e torneranno in servizio; e soprattutto gli 80.000 uomini delle Popular Mobilization Forces, ossia le milizie in prevalenza sciite, che si sono formate in risposta alla fatwa contro l’Isis emessa dall’ayatollah al Sistani.
Governo senza soldi
Queste forze sono legate all’Iran, ma gli Usa non hanno alternative. Il governo di Baghdad è rimasto anche senza soldi, e solo «l’eroica azione del team dell’Onu presente in Iraq gli consente di avere i finanziamenti e far funzionare i suoi servizi». Una situazione estremamente complicata, quindi, che obbliga a rimandare l’offensiva per riprendere Mosul e lascia nell’incertezza i tempi per la controffensiva a Ramadi. Per «degradare» l’Isis, invece, «serviranno almeno altri tre anni».