Il Sole Domenica 31.5.15
Einstein e Bohr
Il problema non è l’indeterminismo
di Vincenzo Fano
Nel ventennio dal 1905 al 1925, Albert Einstein ha dato almeno dieci contributi alla fisica, ognuno dei quali avrebbe meritato il premio Nobel. Dopo questi notevoli risultati, è opinione comune che egli non abbia accettato la nuova teoria dei quanti, sviluppatasi nella seconda metà degli anni Venti, per una mancanza di comprensione: in altre parole, egli sarebbe stato accecato da vecchi pregiudizi, che gli avrebbero impedito di comprendere la nuova fisica. Molti conoscono il famoso articolo che un Einstein ormai “anziano” dal punto di vista scientifico pubblicò nel 1935 assieme a Podolsky e Rosen (e chiamato dunque per brevità EPR), dove provò a dimostrare che la meccanica quantistica è una teoria incompleta. Non incompleta nel senso in cui ogni teoria umana è incompleta, cioè che non è la teoria ultima e definitiva, ma nel senso di non essere in grado di spiegare parte di quegli stessi enti che essa postulava. Anche nei confronti di tale ulteriore contributo dello scienziato tedesco c’è stato un generale atteggiamento di sufficienza.
In realtà sappiamo ormai bene che proprio muovendo da EPR John Bell (1964) formulò la sua famosa disuguaglianza, la cui violazione è stata sperimentalmente confermata. Da qui negli anni Ottanta sono nate da un lato le riflessioni filosofiche sulle conseguenze di tale risultato per la nostra immagine del mondo, dall’altro l’intero campo degli studi sull’informazione e computazione quantistica.
Perciò anche quest’altro contributo di Einstein, che nel 1935 aveva 56 anni, sarebbe forse stato da premio Nobel. Bisogna però ricostruire il pensiero del grande fisico tedesco su tale argomento così delicato e importante. In questo compito ci soccorrono gli splendidi saggi dello storico e filosofo della fisica americano Don Howard, tradotti in italiano per la prima volta. Ma andiamo con ordine.
Il primo storico della scienza a occuparsi con profondità della genesi e del significato dell’EPR è stato Max Jammer, che ha dato il via a tutti gli studi successivi. Jammer individua due fasi nell’atteggiamento di Einstein nei confronti della nuova teoria: in un primo tempo, nei convegni Solvay del 1927 e del 1930, egli avrebbe tentato di dimostrare che le relazioni di indeterminazione di Heisenberg sono false, quindi in questa fase egli avrebbe provato a confutare la meccanica quantistica. In un secondo tempo, invece, dopo il fallimento clamoroso di questi sforzi, tutti smontati dall’acume di Niels Bohr, egli si sarebbe dedicato alla prova che la teoria è incompleta, come ad esempio nel famoso saggio EPR del 1935.
Tuttavia nel frattempo lo scavo delle fonti einsteiniane era andato avanti, e nel 1986 usciva il fondamentale libro di A. Fine, Il gioco pericoloso, che metteva in luce il fatto importante che Einstein non era soddisfatto della versione stampata di EPR, la cui stesura è da attribuire all’allora giovane fisico russo Boris Podolsky.
L’indagine storica di Howard va molto oltre quella iniziata da Fine. Egli, infatti nel lungo saggio Nicht sein kann was nicht sein darf: sulla preistoria dell’EPR, 1909-1935. Le prime preoccupazioni di Einstein sulla meccanica quantistica dei sistemi composti mostra tra l’altro che il problema della non-separabilità dei sistemi quantistici aveva preoccupato Einstein fin dal 1909. Inoltre tutto l’attacco del fisico tedesco alla meccanica quantistica, inclusi i suoi primi tentativi di confutazione dal ’27 al ’30, nel dibattito con Bohr, va letto in questo senso. Così Howard ha completamente reinterpretato la celebre discussione fra i due grandi della fisica del Novecento, mostrando che la versione proposta da Jammer, che si basa soprattutto sulla presentazione di Bohr scritta venti anni dopo, è perlomeno parziale. Ciò che Einstein non ha mai accettato della nuova teoria è proprio la non-separabilità, che con il suo fiuto magistrale aveva già percepito nel 1909. Come abbiamo detto, egli era infatti convinto che la separabilità è una condizione necessaria per fare fisica.
Negli studi su Einstein e la meccanica quantistica i saggi di Howard hanno fatto scuola, modificando decisamente l’immagine proposta da Jammer. Basta prendere in mano il bel libro di Home e Whitaker (2007), che accoglie pienamente la nuova lettura di quel dibattito.
Ciò malgrado nell’immaginario collettivo il rapporto fra Einstein e la meccanica quantistica viene spesso ricondotto alla famosa frase che compare in una lettera a Born del 1926: «La meccanica quantistica esige molta attenzione. Ma una voce interiore mi suggerisce che non è ancora la cosa reale. La teoria offre molto, ma difficilmente ci avvicina al segreto del Vecchio. In ogni caso, io sono convinto che Lui non giochi a dadi». In realtà abbiamo visto che il vero problema di Einstein non era tanto l’indeterminismo, come suggerito dalla metafora del gioco dei dadi, quanto la separabilità. Certamente Einstein avrebbe preferito un’ontologia determinista a una indeterministica, però era convinto che la violazione della separabilità avrebbe impedito di fare fisica, ma non quella del determinismo.
Pubblichiamo qui sopra un estratto dell’introduzione ai saggi di Don Howard, Anche Einstein gioca a dadi. La lunga lotta con la meccanica quantistica , Carocci, Roma, pagg.320, € 26,99. In libreria dal 28 maggio e tradotti per la prima volta in italiano