domenica 24 maggio 2015

Il Sole Domenica 24.5.15
Lectio magistralis al festival biblico
L’esperienza di Giobbe
di Angelo Scola– Arcivescovo di Milano

Il dato è imponente e, purtroppo, incontestabile: noi occidentali del Terzo Millennio siamo testimoni, ma anche in prima persona protagonisti, di una profonda trascuratezza del creato.
Un oscuramento che ha prodotto una separazione così radicale tra uomo e cosmo, da indurre l’uomo a non concepirsi più come parte del creato. L’uomo non riesce più a cogliere la “sapienza” del mondo.
Scrive l’esegeta tedesco Gerhard von Rad: «Sul piano ontologico, la creazione è altra cosa dal “mondo”, nel senso che per l’osservatore essa non è un oggetto neutro... Come oggetto della più alta qualità – “tutto era molto buono” (Gen 1,31) – la creazione mette l’uomo in causa in tutte le forme in cui si manifesta».
Per assumere fino in fondo il compito della custodia del creato, è necessario coltivare l’uomo. Riprendere di nuovo la domanda chi è l’uomo, qual è il suo posto e il suo compito nel mondo. Tra le altre, la Scrittura ci offre una strada singolare per un tale recupero dell’umano. È la strada percorsa in prima persona da Giobbe, il quale – come noi oggi – dimenticò chi fosse e quale posto occupasse nel creato.
La storia la conosciamo bene. La Scrittura ci dice che dopo una sorta di scommessa tra Dio e Satana, sul piano celeste, Giobbe, sul piano terrestre, viene investito da un uragano di notizie terribili: i suoi buoi e le sue asine sono stati rubati, i servi uccisi, i suoi figli e le sue figlie sepolti sotto le rovine della loro casa... Pur spogliato di tutto, Giobbe rimane fedele a Dio. La sventura allora si abbatte direttamente sulla sua persona: una piaga maligna ne attacca il corpo dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Nonostante le dimensioni del male subìto, Giobbe resiste nella sua fedeltà a Dio. Mentre è sottoposto a un attacco tremendo che non conosce tregua egli viene raggiunto da tre amici che restano in silenzio seduti per terra accanto a lui per sette giorni e sette notti. A questo punto, senza che l’autore biblico aggiunga altro, Giobbe prorompe in un drammatico lamento e, alla fine, rivolge il suo atto di accusa contro Dio.
Anche se l’autore del libro non aggiunge altro, noi possiamo facilmente immaginare quei sette lunghi giorni passati da Giobbe a rimuginare il suo dolore, prima di esplodere nel lungo, crescente lamento del capitolo terzo che inaugura il grande dialogo centrale del libro. Tutti conosciamo bene il potere che la malattia e il dolore hanno nella nostra esistenza e, quindi, esercitano sulla nostra ragione. La sofferenza del corpo grava sull’anima e la appesantisce in un processo “spirituale” più che comprensibile. Giobbe è un uomo giusto: la sua disgrazia non può essere attribuita ai suoi peccati, come vorrebbero gli amici divenuti accusatori. Con l’uomo di Us la teoria classica della giustizia distributiva non funziona.
Giobbe conclude il suo vibrato atto di accusa con queste parole: «Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! Il documento scritto dal mio avversario vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diadema!» (Gb 31,38-39).
Come interpretare la risposta di Dio – dal capitolo 38 – alle accuse di Giobbe? È un problema che non cessa di tormentare gli esegeti.
E, soprattutto, che cosa ha fatto cambiare Giobbe portandolo a concludere: «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,2.4-5)?
Dio accetta la sfida fino a decidere di mettersi alla scuola del suo accusatore e invitandolo a salire in cattedra. Giobbe voleva chiamarlo in tribunale, ma l’Onnipotente fa di più: sceglie di occupare il posto dello scolaro.
Cominciano allora le domande, cariche d’ironia, che l’“allievo” Dio indirizza alla maestra “ragione”: «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?... Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno, quando lo circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta?... Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora perché essa afferri i lembi della terra e ne scuota i malvagi?» (Gb 38,4-12).
Man mano che l’interrogatorio procede, che Dio con le sue domande passa in rassegna i segreti dell’universo, vediamo Giobbe rimpicciolire fino a tornare alla sua misura originale e a occupare il suo posto nel creato.
Dio, con le Sue domande gli fa alzare la testa, gli fa guardare l’ordine armonico del creato. Il creato mostra tutta la sua attrattiva. Considerare il creato come una sorta di “arredo” o “apparato scenico” che fa da sfondo alle nostre preoccupazioni, pensieri, lotte, agitazioni e affetti, è una grande miopia quando non una grave patologia.
Invece, rendersi conto del creato, delle cose, ci porta sulla soglia del Tu, che ha fatto tutto. Riconosciuto come realtà che mi si dona, il creato diventa compagnia, cessa, secondo l’espressione del von Rad, di essere puro “mondo”. Non si dà ecologia della natura se non a partire dall’ecologia umana.