Il Sole Domenica 17.5.15
La carica dei non indifferenti
60 sfumature di ateismo
Quattro tinte forti, tutt’altro che grigie, criticate dal credente Timossi, che si misura con serietà col mondo dei non credenti
di Gianfranco Ravasi s. j.
«È molto importante non prendere la cicuta per il prezzemolo. Ma non lo è affatto credere in Dio o non crederci». Così scriveva Diderot all’amico deista Voltaire nella sua Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono, un testo tradotto in italiano nel 1999 dalla Nuova Italia. Con questa battuta folgorante si definiva quel fenomeno sociale che viene oggi denominato come “apateismo”, curiosa miscela tra “apatia” e “ateismo”, e che in forma più tradizionale viene rubricato come “indifferentismo”. Si tratta di una morfologia – per alcuni è una sorta di infezione – che aggredisce sia l’ateismo classico sia la fede autentica: non contesta frontalmente né tantomeno combatte la tesi opposta ma la ritiene irrilevante, a differenza di quanto accade per altre realtà nocive o benefiche ben più concrete, come appunto la cicuta e il prezzemolo, apparentemente simili.
Questa sindrome, sostenuta dall’ottimismo tecnologico, condanna sia la scelta religiosa sia quella atea all’insignificanza o per lo meno all’inutilità, e intacca anche i credenti che non sanno più né vivere né testimoniare la loro “differenza”, cadendo appunto nell’indifferenza. E lo stesso vale per l’ateismo che non riscuote più le accese e profonde rivendicazioni nietzscheane né, tantomeno, i proclami enfatici del Sade della Nouvelle Justine: «Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica e il mio sangue è pronto!». Non per nulla quell’ateismo, in una sorta di contaminazione osmotica, non esitava talvolta a rivestire i paramenti di una ritualità alternativa a quella religiosa, come farà ad esempio Comte col suo calendario di santi “laici” o come faranno certi apologeti atei, dotati – come scriveva Pierre Reverdy nel suo En vrac – di «un’asprezza feroce, pronti a interessarsi di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri».
All’ateismo militante e non “indifferente” e alla sua elaborazione teorica – che già s’affacciava nella classicità greco-romana però solo come negazione di un crasso politeismo mitologico, e che ebbe il suo avvio genuino solo col Rinascimento e col materialismo scettico successivo – un filosofo genovese, Roberto Giovanni Timossi, si sta da tempo dedicando. Il volume che ha ora approntato è una sorta di mappa dell’ateologia nelle sue varie manifestazioni fondamentali: la contrapposizione al teismo, la metafisica dell’immanenza contro ogni sussulto di trascendenza, la riduzione della fede in un Dio a pura e semplice proiezione soggettiva e così via. In queste concezioni si lascia sempre in campo l’uomo con la sua libertà nella sua splendida solitudine, così che unici attori sulla scena siano soltanto l’umanità e la sua storia, ossia – tanto per citare gli esempi più noti e popolari – la “specie umana infinita” di Feuerbach, oppure il “superuomo” di Nietzsche, o la “classe universale” proletaria di Engels e Marx, o ancora il “Grande Essere” umano di Comte, o “l’uomo che si fa” ed evolve di Sartre.
Ora, Timossi, che è un credente, si è idealmente rinchiuso per mesi e forse anche per anni in una biblioteca di ateologia sui cui palchetti sono infilati i principali testi “empi” nel senso tradizionale del termine, impietosi e spietati contro la fede in un qualsiasi Dio. Gli autori presi in esame sono almeno una sessantina, così da avere quasi sessanta “sfumature” di ateismo che, però, sono articolate su uno spettro cromatico tutt’altro che grigio. Quattro sono le tonalità dominanti. La prima è quella dell’ateismo antropologico, ove l’uomo – come si diceva – si pone come unico protagonista sulla terra sotto un cielo vuoto di presenze trascendenti, arbitro dell’etica e della storia, pronto a seppellire per sempre una divinità spettrale, ritrovandosi così come un nuovo dio umano, non certo alla maniera cristologica.
C’è, poi, l’ateismo socio-politico sullo stile del Marx allergico all’“oppio dei popoli” e alle sovrastrutture religiose, simili a una cappa di piombo imposta all’umanità schiava. Subentra in terzo luogo la concezione illusoria di una divinità che è proiezione dell’inconscio umano secondo Freud o che è la denominazione di un imponderabile non-senso o caso che ci comprime, dal quale ci liberano le braccia ben più solide della scienza. Infine, ecco il terreno pieno di crepe, di abissi, di sabbie mobili, vanamente pianificato e puntellato dalla teodicea, ossia dal tentativo teologico di difendere Dio coinvolto nello scandalo del male, “la rocca dell’ateismo”, come la chiamava il Büchner della Morte di Danton.
Lo studioso genovese cerca di catalogare ma anche di vagliare criticamente tutte le “sfumature” che avvolgono questi punti cardinali dell’orizzonte dei senza Dio. È interessante notare che già alcuni di questi capisaldi teoretici affiorano nei testi sacri per eccellenza dell’Occidente, cioè nella Bibbia. In quelle pagine, ad esempio, ci si imbatte nella negazione esistenziale (più che metafisica) del nabal, l’“empio”, il cui manifesto è un lapidario ’en ’elohîm, “no Dio!”, considerato come un fantasma assente dalla scena della storia ove impera e imperversa solo l’uomo. Ma si ha anche la sfilata degli idoli, “opera delle mani dell’uomo”, proiezione della loro hybris o delle loro aspirazioni e impotenze, sui quali cade l’epigrafe dei profeti: «Essi non sono Dio!».
Non manca nelle S. Scritture anche una paradossale negazione credente che si consuma proprio su quel terreno ove di solito si celebrano le apostasie, la regione del male, del dolore e del silenzio di Dio: basti solo pensare a quel capolavoro tematico e poetico che è il libro di Giobbe. Qui il fedele si trova sfidato non solo dalla sua stessa fede ma anche dalla provocazione sarcastica dell’incredulo: «Dov’è il tuo Dio?» (si leggano, ad esempio, i Salmi 42 e 43). Il credente, proprio perché è definito con un participio presente, non vive di un’asettica acquisizione simile a un’evidenza geometrica o matematica, ma deve ininterrottamente costruire la sua opzione nella mente e nel cuore, rispondendo a queste e altre obiezioni e attestando la sua capacità di «rispondere a chiunque domandi della speranza che è in lui» (1Pietro 3,15).
Naturalmente quella di Timossi è una lettura critica e quindi negativa perché non è suo compito elaborare i canoni di una teologia fondamentale o di un’apologetica, anche se non mancano spunti rilevanti nelle sue pagine. Si potranno, certo, avanzare riserve sui suoi giudizi, così come potrà sembrare troppo tranchant la sua sentenza sull’«esito finale della parabola dell’ateismo contemporaneo... come approdo al nichilismo dissolutorio, ... allo sprofondare la causa umana nel vuoto esistenziale». La sua è, comunque, una mappa preziosa per districarsi nella selva oscura della negazione di ogni luce di trascendenza, fitta però di una vegetazione ideale lussureggiante. In finale, però, egli lascia sospesa sul lettore un’enigmatica e sorprendente asserzione di Dostoevskij: «Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della fede più perfetta».
Roberto Giovanni Timossi,Nel segno del nulla. Critica dell’ateismo moderno, Lindau, Torino, pagg. 428, € 29,00