Il Sole Domenica 17.5.15
Basilea Fondation Beyeler
Quel primitivo di Gauguin
di Ada Masoero
Fu una crisi finanziaria, non grave come quella che stiamo vivendo, ma sufficiente a mandare all’aria l’agente di Borsa per cui lavorava, a offrire a Paul Gauguin il pretesto per abbandonare la vita di parigino borghese, sposato e padre di cinque figli, per seguire la vocazione di pittore e di viaggiatore compulsivo, fino ai confini del mondo.
Era il 1886 e lui che pure aveva esordito, da amateur, con gli impressionisti, non poteva più accontentarsi della loro pittura, eversiva solo pochi anni prima ma ormai acquisita dal gusto dominante. Anche perché l’impressionismo, pur con quel suo sfarfallìo di pennellate arruffate, ribelli ai dogmi dell’accademia, si poneva ancora nel solco di un naturalismo che agli occhi degli uomini di cultura più avanzati e anticonvenzionali mostrava ormai le corde.
A lui e a pochi altri artisti inquieti e sperimentali come lui (i Nabis: profeti, in ebraico) quella pittura figlia del positivismo non bastava più. Dopo decenni di predominio della ragione, dell’oggettività, del metodo scientifico (al quale si rifacevano i pointilliste, beniamini allora del mercato), l’interiorità, la soggettività, le emozioni, reclamavano attenzione.
E chiedevano un linguaggio capace di esprimerli.
Per trovarlo occorreva innanzitutto disfarsi del bagaglio della cultura (anche visiva) dominante, rompere con la “corrotta” civiltà moderna e andare a caccia di un primordio incontaminato. La prima tappa fu la Bretagna, allora una terra selvatica e «primitiva», isolata anche dalla lingua diversa, celtica, e arroccata in una religiosità arcana e arcaica. Fu proprio con i dipinti bretoni che Gauguin divenne subito a Parigi, per i circoli culturali più avanzati (l’amico Mallarmé primo fra tutti), il vero profeta in pittura della nuova cultura simbolista, che rifiutava la razionalità per volgersi a uno spiritualismo turbato e oscuro, spesso venato di esoterismo.
La mostra curata da Raphaël Bouvier e Martin Schwander per la Fondation Beyeler parte di qui. E, visitandola, appare subito chiara la ragione per la quale questa istituzione privilegiata, libera da vincoli di bilancio per il successo della sua programmazione e forte di un potere di scambio con pochi eguali, ammette per la prima volta di aver vissuto qualche affanno nei sei anni della preparazione: i dipinti di Gauguin, come le rare sculture (così profetiche per Picasso, Matisse, Kirchner e per altri grandi del ‘900), sono infatti sparsi nel mondo, in musei e collezioni che presero a contendersele appena dopo la sua morte e che da allora le custodiscono tenacemente.
Eppure qui ci si imbatte nel meglio di ciò che Gauguin (1848-1903) seppe creare: poche, splendide opere bretoni e poi subito i dipinti meravigliosi di Tahiti e di Hiva Oa, nelle remote Isole Marchesi, ultimo approdo della sua fuga dalla “civiltà”.
Lui del resto si sentiva estraneo al mondo occidentale: nipote per parte di madre di Flora Tristán, scrittrice peruviana protofemminista e protosocialista, vissuto nella prima infanzia in Perù, Gauguin era fiero del suo «profile d’Inca». Volle vivere perciò in bilico tra i due mondi, e l’Autoritratto con il Cristo giallo, qui esposto proprio accanto al grande Cristo giallo, 1888, è una sorta di manifesto di tale meticciato culturale, dal momento che accanto al crocefisso bretone è raffigurato uno dei suoi vasi-testa in terracotta tratti dalla cultura incaica, simile a quello esposto accanto: un autoritratto anche questo, in cui si raffigura come una sorta di san Giovanni decollato.
È però La visione del sermone, 1888, l’opera bretone che più di ogni altra condensa in sé i principi della pittura simbolista: divisa diagonalmente dal ramo di un albero, che separa le donne bretoni in primo piano dalla scena visionaria suscitata in loro dal sermone, il dipinto è realizzato con colori innaturali, stesi in campiture piatte cinte da nette linee di contorno, come fossero cloison delle vetrate gotiche. L’opera decretò la sua fama a Parigi (ma non il successo di mercato, che inseguì sempre, ma che in vita non conobbe mai) e dettò la linea anche per le tele superbe di Tahiti.
Di qui in poi la mostra non lascia davvero tregua: una dopo l’altra scorrono le opere più splendenti dei suoi anni polinesiani. La parete con i tre capolavori tahitiani (del Pushkin, di Dresda e quello, già della collezione del basilese di Rudolf Staechelin, appena acquistato dall’emiro del Qatar per 300 milioni di dollari: a oggi, l’opera d’arte più costosa al mondo), toglie il fiato, al pari di quella occupata dal grandioso Da dove veniamo? Che cosa siamo? Dove andiamo? (1897-1898), la sua opera più ambiziosa, in cui raffigura la scena edenica di un’umanità primitiva e felice.
Che ai suoi occhi era però ormai un falso: i funzionari francesi inviati nei possedimenti d’oltremare e, più ancora, i missionari avevano cancellato a Tahiti l’antica cultura maori. I templi e gli idoli in pietra erano in abbandono, le epopee orali dimenticate. Gauguin ricorse allora a cronache del ‘700 e a vecchie fotografie (come per lo splendido Pape moe. Source mistérieuse, 1893, in mostra), che fuse in un sincretismo stupefacente con echi di culture antiche, dall’induista alla buddista, all’egizia. Ma nel 1901 decise di spingersi oltre, a 1.400 chilometri da Tahiti, nelle Isole Marchesi, in cerca di stimoli sempre più estremi. O – come disse – in cerca «delle sorgenti dell’umanità». E anche lì, sebbene malato e consapevole di essere alla fine, seppe creare nuovi capolavori, tuffati in un colore ardente e visionario, con il quale intendeva aprire «le porte sul mistero».
Paul Gauguin, Basilea, Fondation Beyeler, fino al 28 giugno. Catalogo Fondation Beyeler