Il Sole Domenica 10.5.15
Benedetto Croce un secolo fa. Il pensatore «totus nasus»
Nel 1915 scrisse il più autobiografico dei suoi libri dove trionfa il motivo etico dell’operosità contro le ferite della vita
di Matteo Marchesini
Esattamente un secolo fa, poche settimane prima che l’Italia entrasse nella Grande Guerra, Benedetto Croce scrisse di getto il Contributo alla critica di me stesso, oggi disponibile nelle edizioni Adelphi con le note aggiunte a margine nei decenni successivi. Il Contributo, scritto alla soglia dei cinquant’anni, è il pezzo più autobiografico di un filosofo che, come Catullo «voleva essere totus nasus», vorrebbe «essere giudicato tutto pensiero». Si tratta, è vero, di una «autobiografia mentale», o comunque di una vita esemplare; ma per sorprenderci, all’autore basta ritrarsi sdraiato su un sofà mentre rimugina sul suo sistema nascente.
Siamo davanti a un trionfo della prosa crociana: della sua musica rotonda, della sua patina antiquaria, ma soprattutto del suasivo movimento con cui il filosofo dimostra che le analisi più sottili sono traducibili in un motto di sano buon senso. Trionfa, qui, anche il più insistito Leitmotiv etico di Croce: quello dell’«operosità» che sola medica le ferite della vita, come il piccolo Benedetto apprese in un collegio di preti borbonici. Ed è impossibile non sorridere, riconoscendo il puntiglio del futuro filosofo laico nel ragazzo che prima di confessarsi distingue i peccati e li scrive su un foglietto. La formazione di Croce cambia segno dopo il terremoto di Casamicciola, che nel 1883 annienta la sua famiglia e lo seppellisce per ore sotto le macerie. Il superstite è accolto allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo, Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Antonio Labriola, che con le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della fede. Croce ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte, come una preghiera. È con questo bagaglio che nell’86 torna a Napoli per rifugiarsi negli studi storici; e solo il bisogno di chiarirne il metodo lo convince a stendere nel ’93 la prima memoria filosofica. Poco dopo, ad allargarne gli orizzonti interviene ancora Labriola, che lo contagia con la nuova passione marxista. Croce, però, l’affronta col suo stile di formidabile ruminante: s’immerge in un corso sistematico di economia, e quando è ormai più ferrato del maestro, espelle dalla materia appena digerita una componente essenziale, quella della militanza, per trasformarla in puro fertilizzante delle sue ricerche. Nel 1900, il socialismo che agita l’Europa gli appare nient’altro che una parte di sé già superata. Mentre lo stesso senso del dovere che lo porterà al governo con Giolitti e alla presidenza del Partito Liberale gli impone di soccorrere le devastate istituzioni napoletane, il commissario scolastico Croce si prepara ora a entrare nelle scuole con ben altra efficacia attraverso l’Estetica, la sua opera più famosa e volgarizzata. Subito dopo la sua pubblicazione, fonda con Gentile la rivista «La Critica», braccio secolare dell’idealismo italiano, e vi applica la propria teoria dell’arte diffondendo un gusto tutto spostato sull’800. Qui Croce sente di aver raggiunto un maturo «accordo con me medesimo e con la realtà», e inizia un percorso che per tre lustri somiglia a una inarrestabile marcia di conquista: il patto con Laterza, il completamento del sistema, i saggi su Hegel e Vico, la polemica (purtroppo) vittoriosa contro l’epistemologia…
Il Contributo segna il culmine di questa marcia, rallentata poi da guerra e fascismo. Lo spettacolo che offre è invidiabile; eppure il lettore non può non sentir salire da queste pagine compatte un involontario umorismo. Perché l’autore, malgrado le dichiarazioni di sobrietà e le ombre che già gli offuscano il panorama, sprizza soddisfazione da tutti i pori. L’insolita nudità del testo evidenzia il rapporto tra le sue compiaciute pose giovesche e la rimozione del lato notturno dell’esistenza: la soluzione genialmente semplificatrice di molte questioni sfiora la tautologia, e ogni domanda fastidiosa è liquidata come un problema mal posto (se «il pensiero vero è semplicemente il pensiero», il pensiero falso è solo «il non-pensiero (…) il non-essere»). Anziché diventare leopardiano, il ragazzo che ha sperimentato sulla sua pelle la crudeltà della Natura cicatrizza le ferite convincendosi che la Storia consiste nel dispiegarsi di una verità ascendente «a claritate in claritatem», ed esibendo il sublime filisteismo goethiano che sarà di Lukács e Thomas Mann.
È questo superiore equilibrio a indisporre i letterati giovani, quelli che in forme più esili hanno reagito come lui al positivismo: il romantico refoulé Cecchi, lo scettico Serra, e il teppista Papini, secondo cui il nuovo maestro d’Italia sogna una nazione «composta di tanti bravi figlioli (…) lettori assidui del Giannettino». Dal clima “decadente” e agitatorio nel quale si muovono questi giovani, il filosofo tiene presto a smarcarsi. Prende le distanze da D’Annunzio, ma anche dall’hegelismo. Eppure, questi distinguo non cancellano alcune affinità cruciali. Cecchi nota che sia l’idealista sia l’imaginifico pongono l’arte sull’infimo gradino della scala intellettuale, e tacciono sulle angosce che derivano all’uomo da un’esistenza sempre incompiuta e da una natura irriducibilmente estranea. Quanto a Hegel, è vero che Croce ne rigetta la mitologia; ma proprio negli anni Dieci fa a sua volta della necessità storica un mostro autorizzato a nutrirsi di corpi umani. In realtà, il culto hegeliano del fatto compiuto e l’arte pura costituiscono gli esiti logici della cultura da cui Croce proviene: perciò, quando il filosofo li rifiuta, appare incoerente con le sue premesse. L’estetica crociana si accorda col detestato Pascoli, non con l’amato Carducci. Quanto alla Storia, l’autore del Contributo ricorda di aver appreso dal suo Marx, sciacquato nell’Arno machiavellico, che ha tutto il diritto di «schiacciare gl’individui». Ma solo nel ventennio diventa evidente, oltre allo iato tra “teoria” e “pratica”, anche la marcia indietro ideale: all’assoluto lirico si affianca allora la funzione civile della letteratura, e lo Stato Leviatano sfuma nell’etica liberale.
A questo proposito, nelle note più tarde, Croce ammette di aver sottovalutato il valore della libertà, e di essere stato poco accorto davanti al fascismo in ascesa. Nel ’15, però, prevale ancora la tendenza a far coincidere intuizione ed espressione, volontà e azione. Come altri pensatori contemporanei, Croce cerca così di superare i dualismi ottocenteschi tra spirito e materia, vita e scienza. Di Hegel lo attrae appunto il suo organicismo; ma gli ripugna la sua brutale omogeneizzazione dei fenomeni. Perciò, nel proprio sistema introduce la dialettica degli opposti, ma si preoccupa che non distrugga i distinti. Vuole tenere insieme il circolo dello Spirito e lo sviluppo dialettico della Storia: Vico e Kant da una parte, Hegel dall’altra. Tuttavia, nell’idealista del primo ’900 vince la giustificazione dell’esistente. Per questo Croce la Storia procede di bene in meglio, e l’irrazionale è appena l’ombra del razionale. Di questa rimozione ci ha dato un’ottima parodia Paolo Vita-Finzi, in un apocrifo crociano dove il pontefice di Palazzo Filomarino, con logica macabra e gioconda, spiega che il male include «germi di bene» come un cannibale «può includere un missionario».
A un passo dalla Grande Guerra, insomma, il filosofo crede ancora che il pensiero possa governare dall’alto la realtà. Appena licenziato il Contributo, fa il suo dovere di suddito in un conflitto a cui non crede, ma evita ogni nazionalismo culturale: all’adesione pratica corrisponde un orgoglioso rifiuto teoretico. È l’abito della distinzione col quale si opporrà sempre alle ideologie che tendono a travolgere tutti gli argini. Ma inutilmente: perché la vocazione del ’900 è appunto quella di cancellare ogni limite, bellico e sofistico. E alla fine Croce ne prenderà atto, trasformando la categoria dell’«utile» nella vitalità «selvatica» che buca le forme dello spirito. Il vecchio filosofo sfiorerà così l’esistenzialismo, ma non farà il passo che l’avrebbe costretto a lasciare del tutto le sponde civili del suo ’800: sensibilissimo alla cronaca, resterà tuttavia convinto di poter incarnare una figura di filosofo ancora classicista.
Questa figura, però, non va confusa con la maschera del pensatore pompier che ci ha proposto tanto ’900, e a cui manca completamente il gusto della concretezza che costituisce la lezione più feconda dello «storicismo assoluto». «La perfezione di un filosofare sta (…) nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia», dice Croce nel Contributo: perciò «l’astrazione è morte». In questo senso, molta fenomenologia si è rivelata assai più astratta dell’idealismo che intendeva superare, perché mancava di un reale intuito ermeneutico di fronte alla vita, ed era dunque destinata a smarrirsi in un farraginoso gergo pragmatistico che predica l’andata «alle cose stesse» ma non la pratica mai. Lo stesso vale per le suggestioni insieme esoteriche e terragne criticate da Croce prima in Gentile e poi in quell’Heidegger che secondo lui disonorava la loro disciplina. Queste filosofie, finte mistiche intimidatorie e velleitarie, confermano la convinzione crociana secondo cui il purus philosophus è un purus asinus. Croce considerava una delle sue maggiori vittorie la ridicolizzazione del Filosofo tutto occupato dall’Essere: e niente infatti testimonia meglio la sua successiva sconfitta della restaurazione di questo mito, in varianti improbabilmente sacerdotali o pedantesche.