domenica 10 maggio 2015

Il Sole Domenica 10.5.15
Perché si venera un falso
La Sindone non ha misteri
Il fatto che si tratti di una reliquia costruita a fini di lucro tra Due e Trecento nulla toglie al suo interesse storico
Sergio Luzzatto


Almeno da un secolo a questa parte, gli storici hanno imparato che studiare il falso è quasi altrettanto rilevante che studiare il vero. Almeno da quando il medievista francese Marc Bloch trasse dalla sua esperienza della Grande Guerra combattuta sul fronte occidentale una lezione definitiva intorno al valore delle «false notizie», e del loro intreccio con le mentalità collettive: con le aspettative e con gli interessi, con i pregiudizi e con i miti che trasformano una percezione fallace in una leggenda “vera”.
Va letto come una magnifica variazione sul tema di Bloch il libro che uno storico del cristianesimo, Andrea Nicolotti, ha pubblicato da Einaudi con il titolo Sindone. E unicamente si può rimpiangere che il sottotitolo suoni Storia e leggende di una reliquia controversa, mentre la stringente dimostrazione dell’autore avrebbe giustificato un aggettivo diverso: Storia e leggende di una falsa reliquia. Tanto il libro di Nicolotti ha il pregio di certificare – per l’appunto – la ricchezza storico-antropologica di un falso. Nel caso specifico, il falso sudario di Gesù Cristo che in queste settimane nuovamente viene esposto, a Torino, alla venerazione dei pellegrini d’ogni dove.
Dopo il libro di Nicolotti, non si vorrebbero più leggere frasi di circostanza come quelle che figuravano ancora lo scorso 19 aprile, sulle pagine del «Corriere della Sera», sotto la penna di un giornalista còlto e acuto com’è Aldo Cazzullo: «La verità sulla Sindone non esiste. Perché un dubbio e di conseguenza un mistero resterà sempre». Basta. La verità sulla Sindone esiste, non c’è più alcun dubbio né alcun mistero. La Sindone è una fabbricazione medievale, è un finto sudario del I secolo d.C. approntato da un qualche falsario in una data compresa fra la metà del Duecento e la metà del Trecento. Ma il fatto che la Sindone sia taroccata nulla toglie alla sua importanza culturale e spirituale. Al contrario, una volta appurato che siamo di fronte a una falsa reliquia, proprio allora incomincia – per uno storico che abbia letto bene Marc Bloch – la parte più suggestiva e più istruttiva della ricerca. Come e perché la fede nell’autenticità della Sindone ha potuto resistere, per oltre sei secoli, dapprima agli indizi, poi alle prove della sua falsità?
Gli indizi della falsificazione arrivarono presto: a pochi anni o pochi decenni di distanza dall’exploit del falsario. Il luogo è il regno di Francia, la provincia è la Champagne, la città è Troyes, la diocesi è quella del vescovo Pierre d’Arcis-sur-Aube, l’anno è il 1389. Rivolgendosi sia al re Carlo VI di Valois sia al papa d’Avignone Clemente VII, il vescovo Pierre denuncia le trame dei canonici di una piccola chiesa appartenente a un feudo locale. A Lirey, «una stoffa raffigurata con artifizio, su cui in modo abile è stata raffigurata l’immagine duplice di un uomo», viene spacciata come la medesima in cui, sulla collina del Golgota, era stato avvolto «il preziosissimo corpo del Signore nostro Gesù Cristo». Il tutto «non a fine di devozione ma di lucro», per «un fuoco di avarizia e di cupidigia». Inscenando sul luogo falsi miracoli. E facendosi beffe dell’evidenza per cui «quello in realtà non poteva essere il sudario del Signore, dal momento che il Santo Vangelo non fa alcuna menzione di un’impressione di tal fatta, mentre invece, se fosse vero, non è verosimile che sia stato taciuto od omesso dai santi evangelisti, né che sia stato nascosto od occultato fino a quel tempo».
Scrivendo al papa, il vescovo Pierre riferisce che un’indagine già era stata compiuta, negli anni a ridosso del 1356, dal suo predecessore Henry di Poitiers, e che la truffa era stata fin da allora smascherata, con tanto di confessione dei colpevoli. «Fu comprovato, anche grazie all’artefice che l’aveva raffigurata, che era stata fatta per mezzo umano e non realizzata o concessa miracolosamente». Per una trentina d’anni i canonici di Lirey avevano smesso, quindi, di profittare della credulità dei fedeli spacciando la reliquia come vera. Ma ecco che la truffa stava ricominciando... Verso la chiesetta di Lirey «ogni giorno affluiva abbondantemente la gente della Champagne e delle regioni vicine per adorare quel panno, non temendo di commettere idolatria». Era ora di finirla. Tale «detestabile superstizione» – implorava il vescovo dal papa – andava «radicalmente estirpata per intervento della stessa Santità Vostra, cosicché quella stoffa non sia esibita al popolo o addirittura venerata».
In una Francia che cercava di risollevarsi dalla Peste Nera e dai terribili lutti che questa aveva seminato, alimentando fra i laici un tanto più impellente bisogno di sacro, il vescovo Pierre seppe dire già tutto: il silenzio della tradizione evangelica riguardo alle stoffe sepolcrali di Gesù, l’irragionevolezza di un’epifania della Sindone dopo milletrecento anni di eclissi, la miscela di speculazione pretesca e credulità popolare che malamente si celava dietro il culto del lino di Lirey. Ma il vescovo Pierre non poté fare i conti né con le cautele politiche di un papa dimezzato (in tempo d’antipapi) com’era Clemente VII, né – tanto meno – poté fare i conti con uno sviluppo decisivo della storia: la scelta quattrocentesca del duca di Savoia, Ludovico, di acquistare (sotto banco) il falso sudario, per farne il gran simbolo religioso del suo casato.
La parte centrale del libro di Nicolotti è dedicata a questo versante della vicenda: gli usi sabaudi della Sindone, dal Quattrocento all’Ottocento, attraverso ostensioni organizzate prima a Chambéry e poi, dopo il trasferimento della capitale, a Torino. Usi sabaudi, e forse abusi sabaudi: non è infatti da escludere che la falsa reliquia di Lirey sia stata rimpiazzata, nel 1534, da un secondo falso sudario, perché un rovinoso incendio aveva distrutto il primo. Dopodiché la ricostruzione di Nicolotti percorre il versante novecentesco della storia. E brillantemente ragiona del paradosso epistemologico per cui tanto più si è potuto discettare, tra ambienti devoti e cultura popolare, dell’autenticità della Sindone, quanto più gli studi umanistici e le scienze “dure” andavano dimostrandone la falsità.
La prova definitiva intervenne, com’è noto, nel 1988: quando un campione del lino della Sindone fu sottoposto, presso diversi laboratori internazionali, all’esame del radiocarbonio (isotopo C14), e l’unanime referto stabilì trattarsi di un tessuto databile all’epoca 1260-1390. Ma la radiodatazione non ha scoraggiato gli adepti della pseudoscienza che da qualche decennio in qua si definisce «sindonologia». Al contrario. Mentre la Chiesa cattolica ha precluso alla comunità scientifica accreditata ogni nuovo accesso al tessuto della Sindone, una compagnia di giro internazionale fatta di generosi illuminati e di scienziati della domenica, di pubblicisti compiacenti e di fantasiosi lestofanti, ha costruito intorno a pollini e campi elettrici, laser e neutroni, materia e antimateria, una vera e propria fabbrica mitopoietica: una fucina di assurdità “autenticiste” non si sa se più esilaranti o più inquietanti.
P.S. Giunto in fondo a questo libro dell’Einaudi, l’ammirato lettore potrà chiedersi come mai – secondo quanto si ricava dalla bandella di copertina – Andrea Nicolotti non sia, a quarant’anni suonati, altro che un precarissimo «assegnista» dell’Università italiana. E in attesa che uno storico di tale livello, alimentando la «fuga dei cervelli», si decida a proseguire la carriera in quel di Parigi o di Oxford o di Stanford, il lettore potrà ben sospettare che si tratti dell’ennesimo piccolo scandalo dell’accademia nostrana.
Andrea Nicolotti, Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, Einaudi, Torino, pagg. 370, € 32,00