sabato 16 maggio 2015

Il Sole 16.5.15
La radio torna a guardare verso lo standard digitale
Ma in Italia coesisteranno per legge entrambi i sistemi
di Antonio Dini


La radio ricomincia a parlare digitale. La decisione della Norvegia di effettuare lo switch-off, la transizione completa del sistema radiofonico nazionale di quel paese dallo standard analogico della modulazione di frequenza (FM) al formato digitale (lasciando ai broadcaster la libertà di scegliere tra DMB e DMB+) riapre in Europa un dibattito che va avanti a fasi alterne da più di venti anni. A tanto risale infatti “l’invenzione” del Digital Audio Broadcasting, creato proprio in Europa e diventato, nelle sue tre principali varianti, lo standard mondiale della radiofonia digitale terrestre. Frutto di ricerca e sperimentazione, il DAB ad oggi è molto più che un’opzione, anche se finora nessun Paese aveva annunciato una transizione completa al nuovo formato come ha fatto la Norvegia: «È una novità importante destinata a lasciare un segno» dice Francesca Pasquali, docente di sociologia della comunicazione all’università di Bergamo.
Il mercato mondiale della radiofonia, rispetto a quello della televisione, è rimasto a lungo immobile: le trasmissioni in modulazione di frequenza stereofonica (tecnologia brevettata negli anni Trenta in alternativa a quella della modulazione d’ampiezza) sono cominciate tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Da allora, l’unico cambiamento di sostanza è avvenuto negli ultimi anni grazie a Internet. «L’uso della radio – dice Pasquali – è cambiato sostanzialmente solo con la rete: dai podcast, trasmissioni registrate da scaricare, agli streaming delle radio tradizionali, che spesso hanno quadruplicato i canali a disposizione. Sino alle web-radio, sconosciute all’etere e molto popolari in rete, senza barriere alla diffusione e licenze di trasmissione a parte i diritti musicali».
La radio nel mondo è in diretta competizione con internet come mezzo di accesso alle informazioni. E per adesso vince largamente: le 51mila emittenti del pianeta trasmettono a 2,4 miliardi di apparecchi e almeno il 75% delle case nei paesi in via di sviluppo hanno una radio. La penetrazione di internet, soprattutto in aree meno ricche del pianeta, per adesso è molto più bassa. E anche la crisi dei mezzi di comunicazione tradizionale tocca solo relativamente la radio. Quello radiofonico infatti è un settore dove, per esempio, per la versione online la crescita della raccolta nel periodo tra il 2006 e il 2013 è stata del 28% .
In Italia, su una popolazione adulta di quasi 52 milioni di persone, gli ascoltatori radio secondo RadioMonitor di GFK sono 34 milioni. La Lombardia è la regione di gran lunga più “radiofonica”: poco meno di sei milioni di ascoltatori rispetto ai 3,3 milioni del Lazio, 3 milioni della Campania e della Veneto, 2,5 milioni di Sicilia, Emilia Romagna e Piemonte, poco più di due milioni di Puglia e Toscana.
«Per la radio il digitale – dice Pasquali – non è una trasformazione ma un adeguamento infrastrutturale. Richiederà comunque forti investimenti, ma troverà un pubblico già predisposto e in parte attivo. C’è da chiedersi casomai se non abbia più senso passare da Internet anziché dall’etere».
Il sistema radiofonico italiano è atipico rispetto ad esempio al mercato televisivo o dell’editoria cartacea. «A differenza della televisione – dice Sergio Serafini, membro dell giunta esecutiva di Aeranti, che assieme all’Associazione Corallo è la più grande aggregazione di radio e televisioni locali, agenzie e televisioni satellitari – dove cinque o sei canali fanno l’80-95% degli ascolti, per la radio il locale pesa molto di più. Le radio locali infatti hanno un ascolto del 33% e pilotano il 10% della pubblicità nazionale, oltre ovviamente a quella locale».
In un mercato strutturato in questa maniera, l’innesto del digitale terrestre porterebbe a cambiamenti significativi. Nonostante in Italia non siano ancora state fatte studi e simulazioni completi di quali potrebbero essere gli effetti, alcuni punti fermi ci sono. A partire dal tipo di transizione: «La legge stabilisce – dice Serafini – che radio tradizionale e DAB comunque coesisteranno. Il nostro switch-off non sarà completo come quello del digitale terrestre». C’è però un problema di costi: le trasmissioni attuali sono tecnicamente già digitali, perché è analogica non la produzione ma la sola messa in onda. Tuttavia, adeguare i ponti radio e gli impianti di emissione comporterebbe investimenti significativi. Anche qui, non ci sono ancora analisi dettagliate, ma l’idea è che siano cifre elevate, nell’ordine dei milioni di euro: «Siamo – dice Serafini – in un periodo di crisi, una delle più grosse concessionarie pubblicitarie è fallita di recente. Ecco, a fronte di una ventina di canali nazionali ci sono 300 radio comunitarie e 600 radio comunitarie locali, tra le quali pochissime potrebbero permettersi questi investimenti».
Sul fronte digitale in Italia operano Club DAB Italia, Eurodab Italia e la Rai, mentre Agcom ha autorizzato trasmissioni in Trentino, in Alto Adige, e in altre aree sono in corso piani provvisori di assegnazione delle frequenze. Materia complessa tecnicamente, che si inserisce in una normativa ancora più complessa. A fare da ostacolo, oltre ai costi per gli editori, il dubbio sull’effettivo interesse da parte del mercato e il problema delle frequenze da assegnare ai provider. Oltre naturalmente a una considerazione che tra gli addetti ai lavori è molto diffusa: «Quali vantaggi porta agli ascoltatori il DAB? E soprattutto – si chiede Serafini – quali vantaggi rispetto a Internet? Perché non puntare invece sulla rete? Passare al DAB mi lascia perplesso: giudicheranno certamente gli ascoltatori ma Internet offrirebbe vantaggi che il DAB non può dare, anche in mobilità».