martedì 5 maggio 2015

Il Manifesto 5.5.15
Africa-Cina, la malinconica fine di una lunga luna di miele .
Di Simone Pierannis
Saggi.

Analisi e reportage sulla presenza cinese in Africa nel libro dello studioso Howard French
Negli ultimi anni la Cina si è con­cen­trata nel finan­zia­mento e negli inve­sti­menti per quanto riguarda il pro­getto «One Belt, One Road», la cin­tura eco­no­mica che pro­spetta una nuova via della Seta, tanto via terra, quanto marit­tima. Si tratta di un evento che ha posto la Cina su sce­nari inter­na­zio­nali, incen­trati sulla neces­sità di muo­ver al meglio le pro­prie merci. In que­sto pro­getto spic­cano gli inve­sti­menti marit­timi di Pechino, come richie­sto dalla lea­der­ship, nell’intento di tro­vare nuovi sboc­chi com­mer­ciali, come dimo­stra l’accordo con il Paki­stan per l’approdo nel mar Arabico.
Asia, Europa, investimenti e acquisizioni: Pechino sta svi­lup­pando un radar ormai glo­bale. Ma tutto que­sto non può far dimen­ti­care quello che ormai viene defi­nito il «secondo con­ti­nente cinese», ovvero l’Africa. È bene pre­ci­sare che nel con­ti­nente afri­cano la Cina ha finito per col­la­bo­rare con qual­siasi governo, ponen­dosi in un’ottica non tanto colo­niale, quanto di sfog­gio del pro­prio potere eco­no­mico nella ricerca pri­ma­ria di risorse. Come sot­to­li­nea un recente libro sulla pre­senza cinese in Africa, China’s second con­ti­nent, How a Mil­lion Migrants Are Buil­ding a New Empire in Africa di Howard French ( New York, 13 dol­lari), «la Cina sostiene di di aver costruito in Africa 42 stadi e 45 ospe­dali. Un tweet del China Daily, spe­ci­fi­cava che gli inve­sti­menti di Pechino sono cre­sciuti a 2,9 miliardi di dol­lari, da 75 milioni e l’influenza della Cina può essere vista ovun­que». L’autore del volume, nell’epilogo, è molto chiaro: può sem­brarlo, ma quello della Cina in Africa non è colo­nia­li­smo, né «imperialismo».L’originalità del libro di French con­si­ste nella sua atten­zione sui cinesi pre­senti in Africa, di cui ne ana­lizza sto­rie, tra­iet­to­rie, raz­zi­smi e idio­sin­cra­sie, estraen­doli da un pro­cesso sto­rico che ha visto come pro­ta­go­ni­sti lo Stato e le imprese cinesi. French sce­glie di cogliere il lato più car­nale della pre­senza cinese in Africa. Ne esce un qua­dro nel quale il nazio­na­li­smo di Pechino e un’indubbia capa­cità com­mer­ciale emer­gono in tutta la loro forza. Del resto la Cina ha mani­fe­stato più volte il ricordo di quando era al cen­tro del mondo. Il libro di French è un viag­gio che tocca paesi come Mozam­bico, Libe­ria, Nige­ria, Sene­gal teso a capire come i cinesi si com­por­tino in Africa. Il merito del sag­gio è uscire dalla macro­sto­ria, affian­cando i numeri gene­rali, a vicende per­so­nali, ane­dot­ti­che quasi a tes­sere un rac­conto col­let­tivo capace di rap­pre­sen­tare un feno­meno in con­ti­nuo divenire. «La luna di miele» tra Cina e Africa, scrive French, è però ter­mi­nata. Alcuni paesi ormai sof­frono la pre­senza cinese. Per­ché arri­vano gli inve­sti­menti, le strade, gli ospe­dali, ma anche una marea di cinesi. E se la Cina ha colto una carat­te­ri­stica essen­ziale, la straor­di­na­ria cre­scita dell’Africa e il mani­fe­starsi di una middle class desi­de­rosa di diven­tare pro­ta­go­ni­sta della cre­scita eco­no­mica e poli­tica, è pur vero che molti Stati afri­cani comin­ciano a met­tere i bastoni tra le ruote ai tanti pro­getti cinesi.La storia dei rapporti commer­ciali tra Cina e Africa, può essere fatta risa­lire al 1996, quando l’allora pre­si­dente Jiang Zemin visitò sei stati afri­cani, pro­po­nendo la crea­zione dell’allora Forum sulla coo­pe­ra­zione sino-africana. Una volta tor­nato in patria Jiang Zemin aveva com­piuto uno di quei discorsi che in Cina trac­ciano il solco della pro­pria vita internazionale.Jiang Zemin aveva infatti espli­ci­ta­mente invi­tato le aziende cinesi «ad andare fuori»: un sug­ge­ri­mento nean­che troppo impli­cito. «Andate fuori» signi­fi­cava «andate in Africa». Per non essere frain­teso Jiang Zemin stan­ziò anche un fondo si 5 miliardi di dol­lari per «lo svi­luppo afri­cano». L’avventura cinese in Africa poteva aver ini­zio: poco dopo que­ste indi­ca­zioni circa «un milione di pri­vati cit­ta­dini aveva scelto di cer­care un nuovo futuro sul ter­ri­to­rio afri­cano». È que­sto insieme di per­sone, l’oggetto dell’indagine di French. Soli­tari com­mer­cianti, sfug­giti alla Cina e in pro­cinto di crearsi una nuova vita in Africa. Il segno di una pre­senza non solo isti­tu­zio­nale, ma for­mata da impren­di­tori pri­vati desi­de­rosi di rita­gliarsi un posto al sole nell’economia nazio­nale. Per­ché alla fine, il sogno di que­sti pio­nieri, è tor­nare con il passo e la ric­chezza da sovrano in Cina.Secondo French, uno dei paesi che più rap­pre­senta l’avanguardia di que­sti «movi­menti» è lo Zam­bia: «i cinesi sono arri­vati in que­sto paese in numeri impor­tanti, fin dagli anni 90, prima che in altri Stati del con­ti­nente». Oggi sono circa 100 mila e costi­tui­scono una delle comu­nità cinesi più nume­rose dell’Africa. E pro­prio nello Zam­bia French incon­tra uno di que­sti cinesi, i cui discorsi sono la foto­co­pia di tanti altri. I cinesi in Africa si sco­prono un po’ raz­zi­sti e «civi­liz­za­tori»: «Non c’è futuro in Africa, non c’è futuro per uno svi­luppo reale. Come pos­sono svi­lup­parsi con l’educazione che hanno qui? Guarda cosa fac­ciamo noi: noi man­diamo le per­sone nello spa­zio, svi­lup­piamo tec­no­lo­gie, inven­tiamo cose e siamo in com­pe­ti­zione con grandi paesi. Ma que­sti: a que­sti non puoi inse­gnare niente. Non capi­scono, non c’è niente da fare». Nono­stante que­sto gli afri­cani hanno finito per apprez­zare alcune carat­te­ri­sti­che dei cinesi. Ad esem­pio il fatto che quanto annun­ciano l’intenzione di rea­liz­zare un pro­getto, alla fine di una man­ciata di anni fini­scono per realizzarlo. Questo apprezzamento di molti afri­cani verso i cinesi è dato dal fatto che ope­rano in con­tra­sto con la buro­cra­zia dei paesi occi­den­tali. Un afri­cano inter­vi­stato da French spe­ci­fica: «se i cinesi dicono “faremo que­sto”, lo fanno. Se lo annun­ciano gli euro­pei, prima viene un team di stu­dio, insomma ci si perde nella buro­cra­zia». Un prag­ma­ti­smo che può tra­dursi in rapi­dità a disca­pito di atten­zione alla sicu­rezza sul lavoro, al rispetto delle leggi fiscali.. Un cinese afferma tut­ta­via che «que­ste per­sone sono sem­pre lì ad aspet­tare: aiuti dall’Onu, aiuti da chiun­que. Io non li capi­sco: noi cinesi lot­tiamo per risol­vere i nostri pro­blemi, non stiamo lì ad aspet­tare». Parole ripe­tute dalle stesse per­sone che ammet­tono di sen­tirsi più liberi in Africa, anzi­ché in Cina. Perché – è indubbio – che se par­las­sero dei cinesi in Cina, use­reb­bero gli stessi toni e le stesse argo­men­ta­zioni, con cui descri­vono gli africani. Africa dun­que come luogo di inve­sti­menti, ma anche come spec­chio deforme per tanti cinesi, un po’ cial­troni, un po’ avven­tu­rieri, che per la prima volta hanno deciso di andar­sene dal paese, per arri­vare in un con­ti­nente quanto di più distante dallo spi­rito cinese, in apparenza