domenica 31 maggio 2015

Corriere La Lettura 31.5.15
Neodarwinismo
Biologia più cultura: una nuova luce sul mistero dell’origine del linguaggio
Le ultime scoperte sembrano rivelare che i tratti naturali hanno interagitoi con quelli dell’apprendimento sociale
di Telmo Pievani


Tante idee, ma nessuna prova: l’origine del linguaggio resta un mistero. Ma no — ribattono altri — il linguaggio umano è un normale adattamento, plasmato dalla selezione naturale nel corso di milioni di anni per farci comunicare. Sulle riviste più accreditate, come «PLoS Biology», torna a infuriare la polemica sull’evoluzione della più elusiva delle proprietà umane: quella di articolare parole in frasi dotate di significato, ricombinando all’infinito elementi semplici secondo regole definite. Questa facoltà è emersa all’improvviso, solo nell’ Homo sapiens , oppure per piccoli passi fin dai primordi della storia naturale?
Gli scettici hanno sferrato il loro attacco in un controverso articolo del maggio 2014 apparso su «Frontiers in Psychology». La firma più importante era quella di Noam Chomsky, ma altri autori influenti ne avevano condiviso la paternità: il genetista di Harvard Richard Lewontin, i linguisti Robert Berwick e Jeffrey Watumull, esperti di comunicazione animale come Michael Ryan e Marc Hauser, uno studioso dell’apprendimento delle lingue, Charles Yang, e Ian Tattersall, autore di saggi fondamentali sull’evoluzione umana. A loro avviso, quanto a capacità linguistiche, il divario che ci separa dagli altri animali non è stato scalfito negli ultimi 40 anni di ricerche. Gli studi comparativi sulla comunicazione in uccelli, cetacei e primati sono inconcludenti: intelligenti sì, ma nessuno parla come noi. Gli indizi paleontologici e archeologici sono scarsi e la genetica del linguaggio non dà risposte. Insomma, un disastro su tutta la linea. Non resterebbe che rassegnarsi al mistero: la sintassi ricorsiva del linguaggio umano sarebbe un unicum inafferrabile, un exploit recente dell’ Homo sapiens , comparso non si sa come (ma certamente non in modo darwiniano).
L’articolo è stato però criticato dagli specialisti perché tendenziosamente non citava le ricerche più recenti. Oggi l’archeologia cognitiva e la paleo-neurologia ci danno informazioni interessanti sulle rappresentazioni mentali e sulle capacità computazionali nei nostri antenati. In genetica, è stato possibile analizzare i primi dati sui cambiamenti molecolari che hanno modificato lo sviluppo neurale e portato all’evoluzione della peculiare struttura del tratto vocale e del cervello dell’ Homo sapiens . Sono state isolate le prime varianti genetiche associabili al linguaggio articolato. Infine, molte condizioni necessarie per il linguaggio, anche se non sufficienti, sono state osservate in altri animali. Persino il Rubicone della sintassi potrebbe avere un qualche antecedente in altre specie.
Ma con chi ce l’hanno gli scettici? Con quei divulgatori di successo, come Steven Pinker, che banalizzano l’evoluzione del linguaggio come se questo fosse un istinto o un modulo gradualmente evolutosi per selezione naturale in quanto «adattamento per» funzioni generali di comunicazione. Una costante e lenta pressione selettiva, nella fantomatica savana africana, avrebbe cioè implementato questo nostro organo nel corso del Pleistocene. Il problema è che si è cercata questa ragione funzionale ovunque (nell’intelligenza sociale, nella cooperazione per la caccia, nella manipolazione di artefatti) senza mai trovare evidenze e affidandosi per lo più a belle storie speculative che riempiono da sempre i libri sull’evoluzione del linguaggio. In questo gli scettici hanno certamente ragione. Eppure, si prova un senso di insoddisfazione davanti a questo ritrito dibattito, che si trascina dai tempi di Darwin e dalla sua polemica con il co-scopritore della selezione naturale, quell’Alfred R. Wallace così pessimista sulla possibilità di spiegare l’evoluzione naturale della mente umana.
Un secolo e mezzo dopo, dobbiamo proprio scegliere se arrenderci al mistero insondabile del linguaggio umano oppure seguire i difensori di una vecchia ortodossia ultra-darwiniana che non ha più motivo di esistere? Una terza via c’è e trae ispirazione proprio da un suggerimento di Darwin, il cui pluralismo teorico andrebbe rivalutato. L’evoluzione è continuità (nessun salto miracoloso), ma anche innovazione (il linguaggio umano è davvero qualcosa di unico nella sua architettura combinatoria).
Inoltre, non tutto nei processi evolutivi è adattamento: contano anche i vincoli strutturali e di sviluppo. Può anche succedere che un tratto inizialmente funzionale (come la tastiera qwerty inventata in dattilografia per distanziare le lettere più frequenti e non accavallare i martelletti) venga poi mantenuto anche se quella funzione (buona per le macchine per scrivere, non certo per i computer) non è più attiva. Secondo uno dei migliori esperti, il biologo e scienziato cognitivo dell’Università di Vienna, Tecumseh Fitch, il linguaggio potrebbe non essere un tratto singolo come pensano sia gli scettici sia gli «adattazionisti», bensì un «mosaico» di tratti: alcuni evolutivamente più antichi, come l’abbassamento della laringe (c’è anche nei cervi); altri più recenti, come la sintassi, tipici della nostra specie e frutto di cooptazioni funzionali o effetti collaterali.
Antiche dicotomie, come quella fra gradualisti e «puntuazionisti», decadono: il linguaggio umano potrebbe essere una combinazione inedita di tratti evolutisi lentamente e di tratti comparsi rapidamente. Alcuni svolgono da sempre la stessa funzione, altri l’hanno persa, altri sono stati cooptati per nuove funzioni.
Nell’unità di ricerca in Filosofia della biologia dell’Università di Padova stiamo cercando di costruire un modello di evoluzione del linguaggio che tenga conto delle evidenze empiriche più recenti. Da queste si evince che nella storia del genere Homo una particolare regolazione dello sviluppo, la «neotenia», cioè il mantenimento protratto di caratteri giovanili, ha avuto un ruolo cruciale. Attraverso il gioco, l’apprendimento sociale, l’imitazione, la sperimentazione vocale per restare in contatto acustico con la madre, la nostra infanzia prolungata ha aperto le porte all’evoluzione culturale. Tuttavia, mantenere più a lungo cuccioli già svezzati ma ancora deboli e dipendenti è un cambiamento costoso, che si è reso possibile solo rafforzando i gruppi sociali.
Molti dati convergono sul fatto che la vita comunitaria e la nostra capacità di costruirci attorno una nicchia ecologica più favorevole (per esempio grazie al fuoco) hanno allentato le urgenze della mera sopravvivenza: meno predazione, alimentazione più ricca e diversificata, crescita del cervello, espansioni geografiche. In questo processo, i tratti della docilità sociale e della plasticità neurale si sono accentuati. In pratica, ci siamo auto-addomesticati, perché come un animale addomesticato impara a non temere la vicinanza dell’uomo, così noi abbiamo imparato a vivere a stretto contatto con altri nostri simili, in gruppi sempre più numerosi e cooperativi.
Anche il linguaggio articolato è un tratto a suo modo costoso, perché ci espone al soffocamento. Una selezione naturale più tollerante e una selezione sociale crescente potrebbero averlo favorito nelle specie più recenti del genere Homo (ben cinque ancora esistenti fino a 100 mila anni fa), grazie alle sperimentazioni di suoni, parole, frasi e significati durante le nostre lunghe giovinezze. Anche questa naturalmente è una storia, ma ha il vantaggio di prendere in considerazione tutti i dati convergenti più avanzati, dai fossili alle molecole, e di adottare un approccio evoluzionistico neodarwiniano aggiornato. Soprattutto, ci mostra come i tratti culturali finora negletti (il fuoco e tutte le tecnologie attraverso le quali abbiamo trasformato il mondo) abbiano interagito con quelli biologici per fare emergere la più loquace delle specie.