Corriere La Lettura 17.5.15
Gli aborigeni sotto attacco: colpevoli di abitare dispersi
di Adriano Favole
Una sera di quasi vent’anni fa, quando la brezza cominciava a rinfrescare il fale uvo , la «capanna dei celibi» in cui vivevo insieme ad alcuni giovani, un mio amico polinesiano mi raccontò del suo primo viaggio in Europa. Nonostante i suoi 28 anni, Petelo aveva già visitato molti Paesi del Pacifico e del vecchio continente: era, è un grande viaggiatore, molto più di quanto lo fossi io che da poco ero salito, per la prima volta, su un aereo. Del suo primo viaggio ricordava la notte insonne trascorsa in un hotel di Parigi: proprio non riusciva a dormire in un letto, lo trovava terribilmente scomodo. Si addormentò verso il mattino, dopo aver disposto a terra le coperte e essersi disteso sopra «come su una stuoia». Le stesse stuoie di foglie di pandano che a me erano apparse dure e inaffrontabili, tanto da convincere i miei ospiti a trovarmi un confortevole materasso di gommapiuma per la notte.
In effetti, si potrebbe dire che noi abitiamo le case , ma anche che le case abitano in noi . Abitando un certo luogo, ne incorporiamo abiti e abitudini: come ha osservato Francesco Remotti ( Luoghi e corpi , Bollati Boringhieri, 1993), non a caso questi tre termini («abitare», «abiti», «abitudini») hanno una radice comune. I miei amici polinesiani facevano la pennichella pomeridiana usando un vecchio mattone come poggiatesta; camminavano agevolmente a piedi nudi sul corallo che formava la base delle abitazioni; trovavano «naturale» vivere in capanne aperte ai quattro venti: i luoghi dell’intimità, della riflessione personale, dell’«io» solitario o della coppia erano piuttosto i giardini o le prime propaggini della foresta, non certo l’abitazione.
«La casa è un condensato di civiltà», ha scritto Christian Bromberger. L’abitare, nelle sue innumerevoli forme, è stato in effetti uno dei temi più esplorati dall’antropologia ottocentesca e primo novecentesca. Quelle forme, tuttavia, non sono state soltanto l’oggetto di una curiosità a volte esotica ed estetizzante, ma anche il terreno di un forte scontro tra culture e poteri. I modi dell’abitare (nomade o stanziale, precario o stabile, abusivo o regolare) sono spesso al centro di tensioni, polemiche, azioni di forza volte a uniformare stili e abitudini. Domesticare le case per addolcire i corpi è parte integrante della struttura coloniale.
Un caso eclatante si sta svolgendo, proprio di questi tempi, nello Stato del Western Australia (WA). Nel novembre 2014, il presidente Colin Barnett ha dichiarato l’intenzione del suo governo di «chiudere» (ha usato proprio l’espressione to close ) oltre 200 comunità aborigene disperse nel vastissimo territorio del WA, in cui vivono tra le 15 mila e le 20 mila persone. Il provvedimento, che consisterebbe in pratica nel tagliare servizi come la fornitura di energia, l’acqua, la sanità, le scuole alle comunità più isolate, è motivato da ragioni «umanitarie» ed «economiche». Nelle prime rientrano il desiderio di assicurare ai bambini una formazione adeguata, la lotta all’alcolismo e al tabagismo, la difesa delle donne dalla violenza sessuale. Le ragioni economiche sono dovute ai tagli dello Stato centrale nei confronti del welfare, che non permettono più i sussidi agli aborigeni che «scelgono» di abitare luoghi dispersi e isolati.
Il primo ministro australiano Tony Abbott ha appoggiato l’iniziativa, dicendo che, d’ora in poi, vivere nei luoghi desertici del WA e di altre parti del continente, equivarrà a un lifestyle choice , una «scelta di vita» che non potrà più pesare sul contribuente australiano. Quello stile abitativo aborigeno, ciò che resta — in mezzo al fumo, all’alcol, ai suicidi — di una civiltà millenaria che da sempre ha preferito il vivere disperso al vivere compresso in villaggi e città, è ora, per usare espressioni governative, una maniera «invivibile» e «insostenibile» di abitare il mondo. Nel 1788 d’altra parte, lasciando la baia di Sydney, James Cook prese possesso dell’Australia proprio attraverso la formula della terra nullius : ai suoi occhi quel continente era una «terra di nessuno» perché gli esseri umani che ci vivevano e che saranno chiamati «aborigeni» non avevano né abitazioni stabili, né villaggi, né tantomeno città che comprovassero il loro abitare quel mondo.
L’annuncio del presidente Barnett ha sollevato uno sciame di proteste, culminate il 1° maggio scorso in una international mob a favore delle comunità native (la bandiera aborigena rosso-nera con il sole centrale è sventolata anche in Piazza San Marco a Venezia). Un gruppo di etnologhe ed etnologi francesi guidati da Barbara Glowczewski (autrice del bel libro I sentieri del sogno. Viaggio nella terra degli aborigeni , Touring Club Italiano) ha denunciato la logica neocoloniale del provvedimento, le politiche «paternaliste» del governo, la volontà di «liberare» il territorio per lasciare campo libero alle agguerrite compagnie minerarie.
La questione aborigena pone interrogativi importanti anche alle nostre forme di abitare: continuare a vivere o tornare in un piccolo paese di montagna è una scelta di vita «insostenibile»? Dobbiamo concentrarci tutti nelle grandi metropoli? «Le abitazioni — ha scritto Jean Cuisinier — sono fatte di pietre e di terra, di legno e di stoppie non meno che di operazioni e categorie dello spirito». Le ruspe australiane che già qualche anno fa hanno spianato l’accampamento di Oombulgurri (WA) sono al servizio di una politica dell’efficienza o i simboli di una colonizzazione dell’abitare, delle menti e dei corpi che non si è mai veramente interrotta in Australia dai tempi di Cook?