Corriere 7.5.15
Un malessere che non cambia la strategia del premier
L’uscita di scena di Civati viene usata dalla minoranza Pd contro renzi ma in realtà sottolinea la vittoria ottenuta dal segretario
di Massimo Franco
La coincidenza tra la firma dell’Italicum da parte del capo dello Stato, Sergio Mattarella, e l’abbandono del Pd deciso da un esponente della sinistra, Giuseppe Civati, è emblematica. Legittima la riforma elettorale dal punto di vista istituzionale, e insieme conferma l’inizio di una nuova fase nel partito del premier. La scelta di Civati di uscire dal Pd solo ora sottolinea la rottura che l ’Italicum produce non solo tra ma dentro i partiti. I fedelissimi di Matteo Renzi usano parole di circostanza. «Dispiace ma non siamo preoccupati», chiosa il vicesegretario, Lorenzo Guerini: sebbene non si capisca bene quanto sia sincero il dispiacere.
L’unica cosa chiara è che la minoranza del Pd si prepara a usare quell’uscita come certificazione del malessere non tanto della nomenklatura ma dell’elettorato verso la strategia renziana; e come lo spauracchio di una lenta emorragia, prima ancora che di una scissione. Eppure, non si avvertono a Palazzo Chigi né l’intenzione né la voglia di cambiare direzione per riassorbire quel dissenso. Le braccia aperte di Sel, la formazione di Nichi Vendola, nei confronti di Civati e di altri eventuali Dem delusi, non sono un problema. Anzi, rafforzano l’insistenza renziana su una linea che sfida, quasi provoca gli oppositori.
È una strategia che a parole sostiene la tesi di un Pd-arca, attento a tenere dentro tutta la sinistra e a scongiurare rotture; nei fatti insegue un progetto moderato di sfondamento al centro, e un modello presidenziale che ha in Renzi il leader indiscusso e il «partito della Nazione» come esito: un’idea alla quale l’ Italicum sarebbe perfettamente funzionale.
In questo schema, spazi per un dissenso percepito, in effetti, «solo come un fastidio», nelle parole degli oppositori, saranno sempre più marginali. E dunque, l’alternativa diventerà presto tra un atto di sottomissione al segretario e premier, o la presa di coscienza che il Pd è diventato altra cosa rispetto alle origini.
Si tratta di uno scontro che mescola problemi di identità e protagonismi. Oppone la classe dirigente storica, per lo più ma non solo postcomunista, ad un manipolo di renziani che hanno conquistato prima il Pd con le primarie, poi Palazzo Chigi e il governo. E adesso, forti della propria determinazione e degli errori avversari, cominciano a guardare oltre: oltre i confini dello stesso Pd, e oltre le elezioni regionali di maggio, e verso quelle politiche del 2018 o quando saranno. Il tentativo è di vedere come andrà il voto a fine mese, e poi decidere su un nuovo partito; e trasferire la sfida al Senato dopo l’estate.
Ma, appunto, l’impressione è di una trincea sempre più arretrata; di un altolà gridato da posizioni di retroguardia, perché non esiste un’agenda alternativa a quella renziana: nel Pd e perfino dentro FI. Avere detto «sì» all’inizio del percorso dell’ Italicum ora rende più difficile, perché meno spiegabile, il «no». E la perdita di pezzi di sinistra finisce per sottolineare la vittoria del presidente del Consiglio. Dire, infatti, che il passo di Civati fuori dal Pd è «una sconfitta», come alcuni esponenti della minoranza, è una tesi condivisa a seconda dei punti di vista. Il sospetto è che Renzi e i suoi sostenitori la pensino in maniera opposta: anche se alla vigilia delle regionali quello che succede può diventare un inciampo.