domenica 31 maggio 2015

Corriere 31.5.15
Il messaggio nascosto (per il sud e il pd) nella lista antimafia
Il pericolo per il partito di Renzi è diventare mero strumento per la conquista del potere
di Goffredo Buccini


Il peggio sta spesso nei dettagli. E l’ormai famosa lista di Rosy Bindi contiene un dettaglio inquietante, anche se un po’ oscurato in queste ore dalla polvere dello scontro interno al Partito democratico: gli «Impresentabili» sono tutti politici meridionali. Dei sedici candidati ufficialmente sconsigliati agli elettori dal pur controverso catalogo della presidente della Commissione Antimafia, quattro sono pugliesi e dodici campani. Veneto, Liguria, Toscana, Marche e Umbria — le altre cinque Regioni che oggi chiamano al voto i loro cittadini — non mostrano in apparenza analoghe criticità.
Si dirà, appunto: in apparenza. Bindi stessa, venerdì, ha ammesso che, se la Commissione avesse preso in esame anche un’altra categoria di reati tipici dell’amministratore pubblico (ad esempio il peculato, alla base delle inchieste su «Rimborsopoli», o l’abuso d’ufficio), la platea dei sommersi sarebbe stata ben più ampia: il cattivo uso del pubblico danaro e la soperchieria del potere non si fermano certo sulle rive del Garigliano. E tuttavia l’Antimafia doveva, secondo natura, appuntarsi su «reati spia» per essa sensibili: estorsioni, concussioni, associazioni mafiose, uso di soldi di illecita provenienza. Insomma su quel terreno di coltura in cui prospera l’incontro tra malapolitica e malavita organizzata. Qui, pur con tutte le presunzioni d’innocenza per ciascuno degli «Impresentabili», il quadro non è confortante né per la Campania né per la Puglia. Temiamo non lo sarebbe neppure per la Sicilia o la Calabria, non incluse in questa tornata regionale e solo per questo esonerate dall’analisi impietosa della Commissione. Bindi non svela granché, tutto è (ed era) sotto i nostri occhi da un pezzo.
Al netto dei veleni sulla tempistica tra correnti del Partito democratico, la lista dell’Antimafia certifica qualcosa di forse un po’ più grave dei dissapori tra Renzi e la Ditta: il degrado delle classi dirigenti del Sud e l’ormai endemica alterazione del loro meccanismo di selezione. Si dirà: la mafia fa i suoi affari ovunque e la ‘ndrangheta ha installato in Lombardia ben più che un’ambasciata (come mostrano le inchieste di Ilda Boccassini). Vero. Ma ciò che si verifica da almeno due decenni nelle regioni meridionali è qualcosa di più e di diverso: lì, le cosche hanno smesso di infiltrare la politica e si sono fatte politica. Agendo su un tessuto sociale dove il peso delle idee è azzerato all’origine e ciò che conta è l’appartenenza familiare o amicale (il familismo amorale di Banfield in salsa noir, insomma).
A guardare le capriole di taluni candidati alla gestione della cosa pubblica si capisce bene come al Sud lo Stato non sia riuscito a colmare (forse neppure ad accorciare) la distanza che Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino ravvisarono nel 1876: «Il governo e tutto ciò che lo rappresenta (...) è in molti luoghi profondamente disprezzato». Nella transumanza pugliese dal centrodestra sfasciato dalla diaspora berlusconiana al carro pd del probabile vincitore Michele Emiliano (con casi clamorosi di doppia appartenenza: centrodestra alle Comunali, centrosinistra alle Regionali) è difficile non intravedere la malattia trasformista del notabilato maledetta da Gaetano Salvemini. E se mai Giovanni Giolitti si meritò l’epiteto di «ministro della malavita», oggi la malavita sembra mandare direttamente nei ministeri i suoi rampolli di maggior talento, almeno a prendere per buone le accuse che hanno condotto in carcere Nicola Cosentino, il casalese sottosegretario all’Economia con Silvio Berlusconi, determinante signore dei voti nella Campania di Stefano Caldoro. Che taluni fedeli cosentiniani abbiano di recente espresso la loro preferenza per il candidato pd Vincenzo De Luca (suo malgrado «capolista» nella lista dell’impresentabilità stilata da Rosy Bindi) è forse un inganno del maligno o forse un accidente della storia, ma di sicuro rischia di ingarbugliare ancor di più le menti dei poveri campani.
Tutto il Sud è del resto un rosario di casi spinosi. A Enna, dove si vota alle Comunali, il Pd ha dovuto ammainare il simbolo (diventato ED, Enna Democratica) e chinare il capo davanti a Mirello Crisafulli, «impresentabile» ante litteram (per il Senato nel 2013), assurto a signore delle primarie per sindaco con il 73 per cento. In Calabria, dove s’è votato a novembre (per sostituire Peppe Scopelliti, Ncd, abbattuto dalla Severino), Renzi e Delrio hanno dovuto accettare che il neopresidente pd Oliverio piazzasse come assessore alle Infrastrutture un ragazzo certo degnissimo ma i cui santini elettorali erano stati purtroppo trovati in un covo della cosca Tegano.
Scricchiolii. Che possono però precedere una grossa frana. E che interpellano Renzi ben più della lite con Rosy Bindi. Il suo è l’unico partito che abbia mantenuto struttura e forma nell’immane liquefazione politica che ci condurrà (forse) alla Terza Repubblica. Sicché, soprattutto a certe latitudini, il pericolo per un Pd che ambisca a farsi Partito della Nazione sta appunto nel trasformarsi in mera forma, contenitore «al netto delle idee»: un taxi buono per qualsiasi cliente e percorso, come accadde a una certa Dc ai tempi dell’intervento straordinario sul Mezzogiorno. I prodromi sono sul tavolo di queste Regionali. Il rimedio potrebbe consistere nel mettere davvero Sud e lotta alle mafie in cima all’agenda politica. Se non è troppo tardi.