sabato 30 maggio 2015

Corriere 30.5.15
Le storie parallele di Atene e Dublino Una scomoda (ma utile) lezione
di Danilo Taino


La crisi greca sta provocando una distorsione ottica, quasi psichedelica, in molte parti dell’Europa. Semina l’idea che le politiche adottate per rispondere alla crisi scoppiata ad Atene nel 2010 e poi proseguita in altri Paesi siano del tutto fallite. È una convinzione che sta alla base della propaganda di tutti i partiti cosiddetti populisti — di destra o di sinistra — che di recente hanno registrato vittorie elettorali e, nel caso greco, conquistato il potere. Chi ricorda la situazione sui mercati e nelle economie nei drammatici 2011 e 2012 non può però che vedere una realtà diversa.
E mettere la trasformazione della crisi da finanziaria a politica in una prospettiva differente.
I Paesi sottoposti a un programma formale di salvataggio — Grecia, Irlanda, Portogallo — o di aiuto per le difficoltà del sistema bancario — Spagna — hanno tutti adottato le indicazioni della troika, formata da Unione Europea, Banca centrale europea (Bce), Fondo monetario internazionale: una combinazione di riforme strutturali e di risanamento dei bilanci pubblici in cambio di sostegno finanziario. Il risultato non è solo che la fase acuta della crisi, che ancora nell’estate di tre anni fa era drammatica, è un ricordo: il merito dell’avere tranquillizzato i mercati è in buona parte del famoso intervento di Mario Draghi, nel quale il presidente della Bce assicurò che l’euro non sarebbe fallito. È anche che le economie sottoposte alla cura, che non è stata di semplice austerità, si stanno riprendendo.
La Commissione europea prevede che l’Irlanda crescerà quest’anno del 3,6 per cento dopo essere cresciuta del 4,8 nel 2014: con una disoccupazione prevista al 9,2 per cento nel 2016 da un livello del 13,1 due anni fa. L’economia del Portogallo è tornata positiva: più 0,9 per cento nel 2014 e quest’anno arriverà all’1,6, con la disoccupazione in discesa di tre punti rispetto al 16,4 per cento del 2013. Sia Dublino sia Lisbona, che al picco della crisi non potevano raccogliere denaro tra gli investitori, sono tornate sui mercati e sono uscite dal programma di aiuti. La Spagna quest’anno crescerà del 2,8 per cento e i senza lavoro — problema strutturale antico per gli spagnoli — calano di quasi quattro punti rispetto al 26 per cento di due anni fa. Lo scorso autunno si prevedeva che la stessa Grecia nel 2015 sarebbe cresciuta del 2,9 per cento, con disoccupazione in calo (già nel 2014) rispetto al 27,5 per cento del 2013. Dodici mesi fa, Atene era straordinariamente riuscita a tornare sui mercati a raccogliere denaro sia come Paese sovrano sia con le sue banche. Se, dopo avere vinto le elezioni lo scorso 25 gennaio, Syriza avesse fatto qualche riforma di sinistra — fare pagare le tasse ai grandi evasori, prendere qualche misura per facilitare la creazione di lavoro e magari chiedere ai creditori meno intransigenza sul bilancio pubblico — oggi il suo leader Alexis Tsipras sarebbe il primo ministro della ripresa e del ritorno della Grecia nelle economie europea e globale. Invece, rischia il caos.
Quel che sta succedendo ad Atene — l’incapacità di modernizzare il Paese — è il racconto di un rischio più ampio in Europa: di quel che succede quando un movimento populista raccoglie consensi che gli permettono di influenzare le scelte politiche o addirittura di conquistare il governo.
Ciò che accomuna Syriza con i partiti populisti che si avvicinano al potere in Spagna, in Francia, in Finlandia, in Olanda, o che comunque raccolgono consensi ampi, anche in Italia, è che, a differenza dei partiti consolidati, non hanno quasi niente da perdere se una volta al governo falliscono: al massimo tornano dov’erano prima, all’opposizione o all’insignificanza. Sono nati senza l’amigdala, la parte del cervello che presiede alla paura: possono percorrere la strada dell’azzardo morale perché non rischiano di pagare le conseguenze delle loro azioni. Per questo, in genere, hanno programmi di governo psichedelici ma non credibili, incapaci di confrontarsi con la realtà e di modificarla.
Non è che in Europa le cose vadano bene. Il peggio della crisi economica forse è passato ma i problemi restano: la crescita è bassa, la produttività non migliora, la società invecchia, l’innovazione langue, la disoccupazione rimane alta. La Grande Recessione ha lasciato ferite che ci vorranno anni a rimarginare.
È comprensibile, dunque, che in molti Paesi i cittadini esprimano voti di protesta. Le risposte a questo passaggio difficile, però, si conoscono: riforme nazionali per rendere l’economia dinamica e produttrice di ricchezza, come indicato ieri dal G7 finanziario di Dresda e da Draghi la settimana scorsa; e riforme della Ue, come proposto (ancora in embrione) ieri da Angela Merkel nella conferenza stampa con David Cameron. Quanto ai populismi: il loro acid test è in corso in queste ore, ad Atene.