venerdì 29 maggio 2015

Corriere 29.5.15
Nei campi rom
Ci vivono in 40 mila, il 60% sotto i 18 anni
Uno su 5 non comincia neanche la scuola
Il 95% non arriva alla fine delle superiori
di Alessandra Coppola e Rinaldo Frignani


Il Paese dei campi, l’Italia. Il «Villaggio della solidarietà» di Lombroso a Roma oppure l’insediamento di via Bonfadini, a Milano. Sono un’anomalia, luoghi di disagio col timbro delle autorità. L’ha già spiegato l’Unione Europea, il governo (allora Monti) ha recepito le indicazioni di Bruxelles e approvato nel 2012 la prima Strategia nazionale per l’inclusione di rom, sinti e caminanti. Che passa principalmente dal superamento degli accampamenti.
Lo dicono tutti, da tempo: i sociologi e gli operatori, i maestri di scuola, i politici e anche chi ci vive affianco. I campi rom sono ghetti, detonatori di malessere e illegalità. Inviati Onu in missione tra le baracche hanno lasciato nei report definizioni come «enclave di segregazione». Tutti d’accordo: vanno superati. Nella pratica, però, solo dieci Regioni su 20 hanno attivato i Tavoli che dovrebbero realizzare la «strategia nazionale», mentre le amministrazioni comunali si arenano sulla mancanza di fondi o sulla paura di perdere consensi. Finisce così che ancora oggi, in Italia, 40 mila donne, uomini e soprattutto bambini vivono in condizioni precarie.
Le stime
Il dossier più recente è dell’Associazione 21 luglio, che stima 180 mila rom e sinti in Italia (su 6 milioni nell’Unione Europea): appena lo 0,25 per cento della popolazione totale. La metà ha la cittadinanza italiana; il resto è apolide o è arrivato dalla ex Jugoslavia e dalla Romania (soprattutto dopo il 2007, con l’ingresso di Bucarest nell’Ue). La definizione di «nomade» da cinquant’anni non è più appropriata: solo il 3 per cento vive effettivamente in viaggio. La grande maggioranza, almeno i due terzi, è stanziale e abita, come qualunque italiano o straniero, in case di muratura.
I campi «legali»
Si segnalano casi di quartieri-ghetto, come ad Arghillà, periferia di Reggio Calabria. E diverse situazioni, lungo la Penisola, di alloggi popolari occupati più o meno abusivamente da rom, in condizioni di sicurezza e igiene pessime. L’allarme vero, però, riguarda la minoranza che ancora s’arrangia in strutture provvisorie. Camper, roulotte o container, nel migliore dei casi. Baracche autocostruite di compensato e lamiere, il più delle volte. Meglio nei cosiddetti campi «formali», ai confini dei diritti umani in quelli «abusivi». Manca un dato ufficiale, a tre anni dal varo della strategia nazionale. Sopperiscono le associazioni, che calcolano 7 insediamenti «legali» a Roma (tre anni fa erano 13), 6 a Milano, 2 nel Napoletano, 5 a Torino, 1 a Firenze. In fondo alla classifica dei luoghi «civili», lo spazio campano di Giugliano: 500 persone (200 bambini) sistemate sui fumi tossici di un’ex discarica mai bonificata.
Le baracche
Delle bidonville «spontanee» è impossibile tenere il conto. A Milano, il monitoraggio più attento lo fa l’associazione Naga: circa 2 mila rom insediati abusivamente in città, in piccoli nuclei marginali e poco vistosi. A Roma — dove i rom censiti sono 7 mila senza contare quelli che vivono con gli immigrati di varie nazionalità in 200 bidonville — il greto del Tevere (Magliana) e dell’Aniene (Ponte delle Valli) pullula di baracche. L’anno scorso 27 sgomberi: una goccia nel mare. In alcuni casi, i campi abusivi sono vecchie strutture industriali in disuso. Come il capannone di Quaracchi, Firenze. O come a Milano la vecchia Innocenti di via Rubattino, coi bambini che giocavano sui cocci di vetro (ora per la maggior parte trasferiti in case «normali» grazie all’intervento di Sant’Egidio) .
I bambini
Sono la maggioranza, e sono le principali vittime: il 60 per cento della popolazione rom ha meno di 18 anni. Per chi di loro vive nei campi, scuola, giochi, cure mediche, i diritti di base di ogni bambino non sono garantiti. Uno su 5 non comincia neanche un percorso scolastico, e per chi ha mai messo piede in un’aula il tasso di abbandono è del 50 per cento nel passaggio tra elementari e medie. Addirittura del 95 per cento verso le superiori. Le possibilità di un ragazzino rom di accedere all’Università sono vicine allo zero. Il campo gli garantirà, in cambio, condizioni di salute peggiori dei suoi coetanei, aspettative di vita di dieci anni inferiori, maggiori probabilità di essere affidato ai servizi sociali.
I centri di accoglienza
Rosi Mangiacavallo, dell’European Roma Right Centre, ribadisce che i campi sono un «luogo di segregazione razziale e violazione di diritti umani, un ostacolo a ogni forma di scambio e conoscenza tra chi sta dentro e il mondo esterno». Superarli, ma come? L’esperimento pubblico più avanzato sono i Centri di emergenza sociale milanesi, concepiti come strutture di passaggio tra l’insediamento e l’alloggio. «Un fallimento — stronca il presidente del Naga, Luca Cusani —: sono ghettizzanti». In quest’ottica, inadeguati anche gli altri centri d’accoglienza per soli rom istituiti, con formule diverse, in Italia. Alcuni, come ha rivelato l’inchiesta Mafia capitale, trasformati in macchine da soldi. Peraltro costosissimi: 8 milioni di euro solo nel 2014 per tre Centri a Roma, uno dei quali in via Amarilli ora inagibile dopo un incendio. Lontani dall’idea di un percorso che definitivamente risolva la discriminazione dei rom.