sabato 23 maggio 2015

Corriere 23.5.15
Perché il premier ora apprezza la lezione inglese
di Francesco Verderami


La camicia bianca non tira più, è in giacca che gli italiani preferirebbero vedere Renzi. Non è questione di gusti né di moda, è una richiesta politica vissuta dall’opinione pubblica come un’esigenza, la volontà di vederlo legato più strettamente al ruolo di presidente del Consiglio.
L’Italia parla al premier, non solo attraverso i social net-work. La voce del Paese gli giunge anche attraverso i sondaggi, dai quali risulta come i cittadini vorrebbero da Renzi un cambio di abito e un cambio di linguaggio. Rispetto ai tempi in cui conquistò la scena da rottamatore, l’approccio giovanilista e la tendenza alla battuta creano oggi distacco, e infatti si chiede al premier un profilo istituzionale.
Fossero questi i guai, Renzi indosserebbe lo smoking ad ogni conferenza stampa. I nodi sono altri, tutti attorcigliati nella matassa ingarbugliata della crisi: un recente report riservato di Swg, per esempio, segnala al capo del governo come si sia allargata di altri quattro punti la forbice tra chi si sente escluso (73%) e chi si sente incluso (27%) «rispetto al contesto sociale ed economico nazionale». Una frattura clamorosa che accompagna i dati sulle «principali preoccupazioni» degli italiani, legate alla «disoccupazione» (42%), alle «tasse» (33%) e alle «prospettive per i giovani» (32%).
È chiaro che tutto ciò si riflette sul consenso del premier, del suo governo e del suo partito, in uno scenario politico che — a detta di Renzi — mostra un elettorato fluido, ormai fuori dai vecchi recinti ideologici e che non risponde più ai richiami delle forze politiche: «Sono cambiati gli elettori, che ci consegnano nuove domande». Tutto oggi si scompone e si ricompone in fretta. Sembra passato un secolo, e invece non è passato nemmeno un anno da quando il leader del Pd, analizzando i flussi del voto europeo, spiegò al suo stato maggiore che «si è ridefinita la base sociale del nostro partito».
In effetti il 40% degli elettori che aveva portato il Pd al 40,8% proveniva da altre formazioni: Forza Italia, Lega, M5S, Scelta civica. Il profilo dei Democratici era mutato: più interclassista e con un consenso omogeneo sull’intero territorio nazionale. Era il partito della nazione, appunto, frutto di un programma che abbatteva i vecchi totem sul Jobs act, sulla riforma della Costituzione, sulla responsabilità civile dei magistrati, sul rapporto con i sindacati.
Oggi però — secondo le indagini demoscopiche — un terzo di quel 40% di elettori se n’è andato: una parte (minima) si è spostata a sinistra, la maggioranza invece è rifluita verso l’astensionismo. È il segno che Renzi continua a non aver rivali, ma che la luna di miele è terminata e si è arrestato il trend positivo. Gli analisti ritengono che la flessione si registri soprattutto tra gli elettori in difficoltà economica e che confidavano in un’immediata ripresa: paradossalmente gli 80 euro avrebbero creato un’eccessiva aspettativa.
Non a caso il premier — che presta attenzione a questi dati più di quanto ne riservi alle percentuali dei partiti — ha battuto negli ultimi tempi il tasto sugli «aiuti» da dare «ai più poveri»: avvertiva (e avverte) la loro delusione, e così mirava a contrastare (anche) l’offensiva dei grillini, che drenano consensi proprio in quelle fasce di elettorato con l’idea del reddito di cittadinanza. Ma la maledizione del tesoretto si è abbattuta anche su Renzi per mano della Consulta e della sentenza sulle pensioni.
L’elemento critico nel rapporto con l’opinione pubblica è il tempo d’attesa — legato ai tempi della crisi — che finisce per influire sui giudizi: un anno la maggioranza assoluta dei cittadini era favorevole all’Italicum, un anno dopo i numeri si sono ribaltati. Si palesa così — raccontano i sondaggi — un Paese schizofrenico a seconda del contesto. E non c’è dubbio che «il contesto» stia giocando un ruolo sull’accoglienza della riforma scolastica da parte degli elettori. Il «contesto» crea difficoltà al premier persino nella sua narrazione dell’Italia che verrà, perché le riforme vengono percepite come segmenti a se stanti, non come pezzi di un unico puzzle.
Ecco il quadro, ed ecco il motivo per cui il leader del Pd punta alle urne nel 2018. Il voto inglese l’ha rafforzato nel convincimento, «è stato un’autentica lezione», non solo per la sconfitta della sinistra di Miliband ma soprattutto «per il successo di Cameron, che ha potuto spendere in campagna elettorale i risultati economici del suo governo». Perciò Renzi legge i sondaggi e li interpreta inseriti nel «contesto», perciò si dice proiettato verso la fine naturale della legislatura, dove conta di presentarsi senza più camicia sbottonata e senza parlare più di rottamazione. Ma con il saldo positivo delle sue riforme.