venerdì 22 maggio 2015

Corriere 22.5.15
Culto dei dittatori e crisi delle democrazie
risponde Sergio Romano


Vorrei avere il suo pensiero sui motivi che hanno spinto masse enormi di persone a seguire ciecamente i dittatori, accettando supinamente i loro ordini, i loro assassinii, la distruzione della libertà (bene supremo dell’uomo), l’indottrinamento (Hitler, Mussolini e Mao), senza avere capacità di giudizio proprio e di libertà di pensiero. Vedi soprattutto Stalin, Kim Jong-un, Pol Pot eccetera, che si sono macchiati di delitti specialmente sul proprio popolo (anche Cile, Argentina, Grecia e dittatori africani). Inoltre non vedo da parte dei nostri intellettuali e politici di sinistra una chiara condanna dei regimi comunisti dove è successo di tutto. Non ho quasi mai sentito una dichiarazione sul fallimento di quella ideologia imposta con la forza e basata su uno Stato di polizia peggiore del fascismo, nei Paesi dell’Est e in Cina dove ora, alla faccia di Marx e di Lenin, ambiscono al capitalismo più sfrenato.
Marco Dossena

Caro Dossena,
L’ era delle dittature fu preceduta da un lungo periodo, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la Grande guerra, in cui le democrazie parlamentari erano al centro di accese discussioni e polemiche. I loro critici, sempre più numerosi, puntavano il dito sugli scandali, sulle elezioni comprate dal grande capitale e pilotate dai governi, sull’esistenza di clientele e notabili che manovravano come burattinai i membri del Parlamento. Nel dibattito provocato dalla crisi del sistema rappresentativo, l’antidoto invocato contro queste democrazie corrotte e chiacchierone era soprattutto il socialismo, ma anche l’anarchia e in qualche caso (come nella Francia dell’Action française) persino il ritorno alla monarchia dell’Ancien Régime. Fra le cause della Prima guerra mondiale vi fu anche la speranza che l’appello all’unità contro il nemico sarebbe servito a meglio controllare le società nazionali.
Ma la guerra, anche nei Paesi vincitori, produsse effetti alquanto diversi da quelli che la classe dirigente aveva atteso e sperato. In primo luogo dette le armi al popolo e gli insegnò a usarle. In secondo luogo aumentò enormemente il numero di coloro che chiedevano una sorta d’indennizzo politico per gli immensi sacrifici materiali e umani sofferti durante il conflitto. Nei Paesi sconfitti le reazioni furono ancora più violente e rabbiose. La rivoluzione bolscevica contagiò, dopo la fine della guerra, la Germania, l’Austria, l’Ungheria e persino l’Italia del «biennio rosso». Dopo la marcia su Roma, il fascismo (una combinazione di socialismo e nazionalismo radicale) divenne un modello per altri Paesi. Comunismo e fascismo si contesero il dominio delle masse, ma avevano tratti comuni. Erano entrambi risolutamente ostili alla democrazia parlamentare e altrettanto convinti che il «mondo nuovo», auspicato dai loro teorici, richiedesse una guida forte, capace di parlare al popolo senza il fastidioso diaframma dei Parlamenti.
Da Mosca a Roma e a Berlino, dall’Asia all’America Latina, i regimi autoritari e totalitari furono diversi perché costruiti con i diversi materiali delle tradizioni e degli interessi nazionali. Ma tutti avevano una guida amata e venerata a cui era assegnato il compito di traghettare i suoi connazionali verso il futuro. Perché le masse cominciassero a cambiare parere, caro Dossena, occorreva che toccassero con mano, dopo un nuova guerra, gli effetti della cieca fiducia che avevano riposto nel loro leader.