Corriere 22.5.15
Zaha Hadid
«Mi piace fare shopping e mangiare cinese. Sono solo una signora con tanta gavetta»
intervista di Fabio Cavalera
E pensare che, quando era agli inizi, disegnava sul tavolo della cucina. «L’appartamento era piccolo. Lavoravo dove potevo, in cucina, in camera da letto, nel salottino, persino in bagno». Prima che diventasse famosa.
Oggi Zaha Hadid ha comperato un’austera ex scuola vittoriana di mattoncini rossi, in Bowling Green Lane nel cuore di Clerkenwell, che è stata nell’Ottocento e nel primo Novecento l’approdo della immigrazione povera italiana e di cui porta ancora traccia, visibile e nobile: c’è la parrocchia di San Pietro dove per 43 anni don Carmelo ha tenuto in piedi l’associazione di accoglienza agli italiani in difficoltà, sorretto anche dai contributi versati dal finanziere Davide Serra e dal suo hedge fund. (chi l’avrebbe mai detto?)
E qui, a Clerkenwell nella vecchia Italia londinese, la «Little Italy» trasformata in un nuovo centro della moda e delle professioni, Zaha Hadid, da molti enfaticamente etichettata come la «regina dell’architettura», cosa che forse la infastidisce perché è una signora essenziale e per niente abituata alla retorica delle facili definizioni, ha stabilito il suo quartiere generale con 400 giovani collaboratori e dipendenti da dirigere (una trentina sono italiani) e ha pure inaugurato, vicino alla ex scuola vittoriana, una galleria aperta al pubblico con i modelli delle opere che ha realizzato o che sono in fase di progetto in ogni parte del mondo, grattacieli e stadi di calcio, aeroporti, abitazioni e uffici, dalla Cina al Qatar, dall’Europa all’America e al Giappone. In Italia: il Museo delle Arti del XXI secolo a Roma, City Life a Milano (e a Milano è spesso ospite della settimana del design e del mobile, quest’anno ha reinterpretato ed esposto l’icona del serpente di Bulgari nei giardini dell’omonimo hotel, opera di venti metri per tre già portata ad Abu Dhabi), il Museo della Montagna al Plan de Corones. il sesto di Reinhold Messner (apertura in estate), il Museo del Mediterraneo sul lungomare di Reggio Calabria che si ispira alla stella marina
Niente ovvietà
Zaha Hadid non è di natura loquace. Va dritta alla sostanza e la annoiano quelle domande vacue e scontate che si sente spesso rivolgere sulle donne, sul ruolo delle donne, sulle donne e il successo. Meglio evitare. «È evidente che i maschi vivano da millenni in una condizione che è stata di dominio ed è di privilegio professionale e sociale. Servo io a ripeterlo?». È gentile con la sua voce profonda. Le piace parlare della famiglia e dei «genitori fantastici che adoravano la cultura, la storia, l’arte», dell’Iraq dove è nata nel 1950 e «dove ho scoperto il mio amore per l’architettura e il design quando avevo 10 anni, grazie al papà e alla mamma che mi portarono a una mostra. Lì pensai che avrei voluto disegnare e costruire case». Si diverte a parlare della Cina «che conobbi quando ancora era poverissima ma romantica, un paese meraviglioso dal progresso stupefacente, non me la sento di sottoscrivere tutti quei bla-bla sulla globalizzazione, ciò che hanno fatto i cinesi ci lascia a bocca aperta». Ed è incantata dall’Italia «visitata la prima volta che ero bambina, Roma, Napoli, Capri, Pompei, avete il bello, il più bello, a portata di mano». La infastidiscono le lentezze della nostra burocrazia e i tempi della nostra politica, comunque «sono paziente e determinata, alla fine mi diverto e sono felice».
Può essere scambiata per un donna snob e scontrosa, magari sbrigativa nelle sue relazioni con i giornalisti, ma Zaha Hadid non lo è per niente. Occorre prenderla per il verso giusto. «Sono una signora normalissima, con parecchia gavetta alla spalle e alla quale, ora che ne ha la possibilità, piace fare lo shopping, piace stare con gli amici, piace mangiare bene, specie cinese». E piace vestire con sobria e comoda eleganza. È affascinata dagli stilisti giapponesi e «da Romeo Gigli, grande fashion designer che ho conosciuto negli anni Ottanta».
Tanto lavoro
È «ammalata» di lavoro che, sopra ogni cosa, le affolla la mente e i sentimenti. «È la mia passione, una volta resistevo in studio addirittura fino alle 4 o alle 5 del mattino». Adesso la serata è diventata più banale e tranquilla. «Cerco di rilassarmi. Come? Col teatro e la danza, con la musica, con i film italiani e francesi, Visconti, Bertolucci, Godard». Ha scoperto le serie televisive e non si vergogna a confessarlo: «Quelle scandinave sono straordinarie. Seguo House of Cards e The Killing. Non sono così snob come sostiene chi non mi conosce». Non lo è, anche perché è nata e cresciuta nel mondo, l’hanno abituata a confrontarsi con culture, popoli, tradizioni diverse. «Mia mamma era elegante e protettiva, governava la famiglia. Mio papà era straordinario, mite, laico. Si era laureato negli anni Venti alla London School of Economics, si trasferì a Beirut, ritornò in Iraq, contribuì a fondare il partito democratico e vi rimase fino che la guerra lo costrinse a fuggire. Un industriale e un intellettuale importante, una persona generosa che ha appoggiato tantissime persone, pagando i loro studi. È morto a Londra, l’avevo convinto io a venire, lui non voleva abbandonare il suo paese». Zaha Hadid ha trascorso infanzia e adolescenza fra Libano e Iraq. «Una vita stimolante e splendida». Si è laureata in matematica a Beirut ed è volata nel Regno Unito per frequentare la Architectural Association, la scuola di architettura, diventando ciò che è diventata, conquistando il premio Pritzker, il Nobel degli architetti. «L’Iraq è sempre nel mio cuore». Non si oscurano le origin i.
L’angolo speciale
Londra l’ha adottata e Londra è la città che più di ogni altra sente sua. «Istanbul è magica, New York è frenetica e straordinaria, Roma magnifica. Londra è Londra, è impareggiabile». Viaggia in continuazione. «Inevitabile in una professione tanto competitiva». Però il suo universo preferito è nella «Little Italy» a Clerkenwell. «Cercavo un angolo gradevole, simpatico e allegro, L’ho scoperto e trovato qui», nell’Italia semplice di Londra. Dove si sgobbava e si sognava.