Corriere 20.5.15
Il mito della giustizia sociale può essere un alibi ingannevole
Quanti equivoci e malintesi sul senso di equità
di Antonio Polito
Lo storytelling è l’ultimo grido della comunicazione politica. E pensare che ci scherzavamo su quando ce la raccontava Vendola e si chiamava «narrativa»; eppure già allora funzionava, visto che portò un giovane comunista con l’orecchino al governo della Puglia, e ce l’ha tenuto per dieci anni.
Ma l’arte di governare la realtà, per sua natura confusa e caotica, fingendo di seguire un preciso disegno di cambiamento della società, ha anche i suoi rischi. Soprattutto quando chi è al potere cede alla tentazione di presentarsi come un vendicatore dei torti del passato e il paladino di una nuova era di giustizia sociale. A furia di aizzare la sete di giustizia, infatti, si possono creare più aspirazioni di quante sia possibile realizzare, e anche meno giuste, e talvolta addirittura puramente egoistiche e vendicative. È per questo che le società più dinamiche sono quelle dove è il lavoro, non la spesa pubblica e la sua gestione da parte del potere politico, a fare la giustizia sociale.
Il dibattito in corso sulle pensioni ne è un ottimo esempio. Ormai chiunque ne parli dice di farlo in nome della «giustizia sociale». In tv si sente dire che il rimborso non è andato a tutti i pensionati perché non sarebbe stato «equo», mentre in realtà, e più semplicemente, non sarebbe stato possibile. Oppure si sostiene ormai abitualmente che il sistema «retributivo», quello dei padri e dei nonni già in pensione, è «iniquo», un furto al quale verrà presto posto rimedio con la restituzione del maltolto, mentre il sistema contributivo, quello dei figli, sarebbe «equo».
Si crea così una costante ansia nei destinatari delle prestazioni dello Stato sociale, un guardarsi l’un l’altro in cagnesco, tra categoria e categoria, e anche una pericolosa incertezza sul futuro: probabilmente anche per questo i consumi non ripartono come dovrebbero, perché in attesa di capire come va a finire questa «rivoluzione» molti preferiscono ricostituire il risparmio bruciato dalla crisi, non si sa mai. Si ingenerano oltretutto aspettative eccessive: non c’è gruppo sociale che prima o poi non avvertirà il suo sacrosanto diritto di ricevere anch’esso un bonus, o di vedersi destinato il famoso «tesoretto» (a proposito, il termine porta davvero male, basta evocarlo e sparisce nel giro di poche ore), o di essere stabilizzato (una delle ragioni della tensione sulla riforma della scuola sta nel fatto che si è distinto tra i precari meritevoli di assunzione e quelli che invece dovevano ritornare in purgatorio).
Ma soprattutto non sempre si fa davvero giustizia sociale. Due esempi. Per giudicare l’equità di un trattamento pensionistico si usa spesso il metro dell’entità dell’assegno: più alto è, più iniquo è. Ma in realtà il vituperato sistema retributivo penalizza le pensioni più alte, per redditi superiori ai 45 mila euro, cosa che con il contributivo non avverrà. Inoltre non si usa mai un altro criterio: e cioè per quanti anni si è versato contributi. Pensate che in Italia si pagano ancora 9 miliardi e mezzo l’anno ai baby pensionati che hanno lavorato 14 anni, 6 mesi e un giorno. Magari non sono pensioni alte, ma forse sono più inique di quelle alte però frutto di quaranta anni di lavoro. D’altra parte, questa accusa di iniqua generosità verso gli anziani mossa al retributivo non sempre ha fondamento. Ci sono quasi cinque milioni di pensionati col retributivo che non raggiungono nemmeno il minimo (intorno a 500 euro), tant’è che lo Stato versa ogni anno all’Inps 25 miliardi per integrare il loro assegno. Mentre a danneggiare i lavoratori giovani non è certo il contributivo, sistema che anzi consente di utilizzare tutti i contributi versati nella vita lavorativa, ma la precarietà occupazionale, le lunghe pause di disoccupazione o sottoccupazione, tutte cose con cui il regime pensionistico c’entra ben poco.
Sarebbe dunque consigliabile non usare con leggerezza l’argomento dell’equità. Accendere l’invidia sociale tra classi di età e categorie di lavoro può essere utile per dividere e imperare sull’opinione pubblica, ma danneggia gravemente la coesione nazionale. E Dio sa quanto un Paese in bilico tra uno scatto verso la crescita e una ricaduta nella depressione ne abbia bisogno.