Corriere 18.5.15
Vite di Talleyrand e Fouché i grandi camaleonti della politica
Prima monarchici, poi repubblicani, napoleonici, infine vicini alla Restaurazione. Sempre in primo piano
di Sergio Romano
Nel suo libro su due protagonisti della Francia rivoluzionaria e napoleonica — Talleyrand e Fouché — Alessandra Necci si chiede «quale sia la dote, la capacità che permette ai due personaggi di sopravvivere, mentre altri apparentemente più forti, più eroici, “migliori”, passano come meteore, per poi sparire». La domanda non è banale e suggerisce qualche riflessione sulla rivoluzione francese. La Francia dell ’Ancien Régime era un’enorme «azienda» che dava lavoro, denaro e potere a parecchie migliaia di persone legate, per un verso o per l’altro, all’istituzione monarchica: ministri, funzionari, militari, ecclesiastici, magistrati, membri dei Parlamenti regionali e delle corporazioni professionali. La rivoluzione non fu soltanto la nascita di nuove istituzioni. Fu anche un enorme terremoto al vertice dello Stato che ebbe per risultato, nel giro di pochissimi anni, l’apparizione di una nuova classe dirigente.
Era inevitabile che questo gigantesco «rimpasto» suscitasse un’ondata di piccole e grandi ambizioni. Senza la rivoluzione Charles-Maurice de Talleyrand Périgord, vescovo di Autun, sarebbe divenuto cardinale e si sarebbe distinto soprattutto per le sue spiccate doti mondane nei salotti di Parigi; mentre il piccolo Joseph Fouché avrebbe fatto una mediocre carriera nei collegi religiosi (dove insegnava matematica e latino) e nei ranghi minori delle gerarchie ecclesiastiche. Ma gli Stati Generali, convocati da Luigi XVI nel giugno del 1789, schiusero nuove prospettive, mentre il Terrore, quando i giacobini conquistarono il potere, istillò nei più intraprendenti una inebriante miscela di scaltrezza, audacia e voglia di vivere.
Per alcuni mesi, fra il 1792 e il 1794, la selezione di questa nuova classe dirigente avvenne principalmente grazie alla fuga della nobiltà dalla Francia rivoluzionaria e allo sfrenato uso di uno strumento che il deputato Guillotin aveva brevettato per ragioni umanitarie e per la gioia della plebe parigina. Fu così che dopo il soprassalto contro-rivoluzionario di Termidoro, nel luglio del 1794, Talleyrand e Fouché poterono cominciare, ciascuno a suo modo, la scalata del potere.
In Il Diavolo zoppo e il suo Compare (Marsilio) Alessandra Necci descrive brillantemente questi percorsi intrecciandoli con quelli della storia francese e europea sino al ritorno dei Borbone sul trono di Francia e, per Talleyrand, sino alla fine della sua vita durante il regno di Luigi Filippo.
Il giudizio sui protagonisti del suo libro è spesso severo. Talleyrand è uno spregiudicato libertino. Ha offeso la sua Chiesa con leggi, come quella sulla costituzione civile del clero, che in altri tempi avrebbero meritato il rogo. Non ha mai smesso, nemmeno quando ancora diceva messa nella sua diocesi o sul campo di Marte, a Parigi, nella prima fase della rivoluzione, di passare da un letto all’altro. È venale e ha sempre approfittato dei suoi incarichi pubblici per accumulare una cospicua fortuna. Ha tradito tutti i suoi «datori di lavoro»: la Chiesa, il re, Barras, Napoleone. Fouché è spregevole. Ha fatto carriera, durante il Terrore massacrando i cittadini di Lione, ha avvolto la Francia in una fitta rete di spie, ha cospirato con i nemici del governo ogni qualvolta il potere cominciava a traballare.
Eppure il libro chiarisce bene le ragioni per cui i due personaggi sopravvissero alla scomparsa dei regimi di cui erano autorevoli servitori. Talleyrand fu uno dei più acuti e disincantati osservatori della politica nazionale e internazionale, spesso il primo ad accorgersi che l’evoluzione degli avvenimenti esigeva un rapido cambiamento di rotta. Fouché fu un eccezionale ministro di polizia, depositario di tutti i segreti del regime, infallibile scopritore e orditore di congiure e complotti. Napoleone non li usò perché sapevano corteggiare e adulare, ma perché erano, ciascuno nel suo mestiere, i migliori. Dovremmo considerare tradimento, quindi, la relazione segreta di Talleyrand con lo zar Alessandro nella fase del declino imperiale tra la campagna di Spagna e quella di Russia? Dovremmo considerare tradimento l’agilità con cui Fouché saltò sul carro dei Borbone dopo la sconfitta di Waterloo?
Nel caso del ministro di polizia la parola è probabilmente appropriata. Ma nel caso di Talleyrand il giudizio mi sembra troppo sommario. Sarebbe stato tradimento se in quella fase turbolenta della storia francese il vescovo spretato non avesse dimostrato, sin dai primi passi della sua carriera politica, di essere fedele soprattutto a se stesso e alla propria intelligenza. A chi lo accusava di avere tradito Luigi XVI avrebbe potuto ricordare l’udienza durante la quale aveva esortato il re a interrompere coraggiosamente la deriva rivoluzionaria sciogliendo gli Stati generali. A chi lo accusava di avere tradito Bonaparte, avrebbe potuto rispondere che il continuo ricorso alla guerra stava coalizzando l’Europa contro la Francia ed era ormai una minaccia per il futuro del Paese. Se i padroni si dimostravano incapaci di fare un buon uso della sua intelligenza, era una colpa abbandonarli al loro destino?
Fouché sopravvisse durante la Restaurazione, ma aveva votato per la morte durante il processo a Luigi XVI, era inviso ai Borbone, fu proscritto nel 1818 e morì due anni dopo a Trieste. Talleyrand invece rese ancora due servizi al suo Paese. A Vienna, nel 1814, ottenne che i vincitori (Inghilterra, Russia, Prussia e Paesi Bassi) lasciassero alla Francia i confini del 1792. A Londra, dove fu ambasciatore dal 1830 al 1834, dopo l’ascesa al trono di Luigi Filippo, vinse un’altra battaglia, lavorando con gli inglesi alla creazione di un nuovo Stato: il Belgio neutrale. Vi era ancora un padrone tradito, la Chiesa Romana, con cui lo scomunicato vescovo di Autun non aveva ancora fatto i conti.
Fu un negoziato durissimo, condotto sul letto di morte, ma alla fine Dio cedette e gli consentì di morire con l’estrema unzione.