domenica 17 maggio 2015

Corriere 17.5.15
“Eravamo idealisti e antifascisti, ci divertivamo tantissimo”
“Libri per cambiare il mondo. La mia avventura con Giangiacomo”
Le origini della casa editrice che celebra i 60 anni, nei ricordi della moglie del fondatore: intervista di Mario Baudino


Inge Feltrinelli ha un’immagine per questi 60 anni di editoria che la sua casa editrice celebra al Salone: la «febbre frenetica». La ripercorre oggi (ore 12, Sala Blu) con Michael Kruger, scrittore e editore tedesco, uno dei grandi compagni di strada nella lunga avventura internazionale della casa editrice, cominciata quando tra Europa e America una serie di giovani pazzi per i libri si annusarono e si riconobbero a vicenda, in «una specie di mafia degli editori internazionali di qualità».
Tutto era molto più semplice, ci dice con una punta di allegra nostalgia. Bastava osare. Lei, giovane fotografa giramondo, salì a bordo nel ’58 quando nell’ufficio dell’editore Rohwolt ad Amburgo conobbe Giangiacomo Feltrinelli (e lo sposò due anni dopo). La casa editrice era nata da poco, tra la fine del ’54 e l’inizio del ’55, data ufficiale cui fa riferimento, e si era imposta come un fenomeno nuovo e sorprendente. Erano già stati pubblicati Il dottor Zivago (sfidando l’Urss e il Pci in piena Guerra fredda) e il Gattopardo (voluto da Giorgio Bassani sfidando il comune sentire degli intellettuali italiani), che avevano avuto una grande risonanza internazionale. Era nato un editore diverso da tutti gli altri.
La domanda è perché. Nessuno di voi due aveva tradizioni editoriali in famiglia. Perché decidere di fare libri?
«Perché eravamo idealisti e antifascisti, in un momento in cui tutti i giovani intellettuali erano come noi, e infatti tutti lavoravano per noi, in un incredibile via vai. Giovani briganti e frenetici come Enrico Filippini, Valerio Riva, Nanni Balestrini, tutti maschi. Ero la sola donna».
Un ruolo difficile?
«Forse. Però adesso in casa editrice siamo quasi tutte donne. Un bel cambiamento, non le pare? Anche questo fa parte dell’avventura».
Come la giudica?
«Una grande avventura, una sfida culturale. Capimmo che ogni libro ha un dramma, un destino. A quel tempo non esistevano agenti letterari, salvo Eric Linder che decideva lui per tutti, e noi eravamo sempre a caccia».
Giangiacomo Feltrinelli esordì rilevando una casa editrice che pubblicava ottima saggistica - senza successo - e il cui catalogo gli fornì la base per l’Universale Economica. L’aggettivo «economico» fu molto importante fin dall’inizio.
«E come no. Una delle prime idee furono i classici popolari. Pensava a una specie di Penguin italiana, coi libri di Einaudi e Laterza in edizione economica. Ne parlava, tutti gli dicevano bella idea caro Giangiacomo, e poi non se ne faceva niente. Ci provò da solo, aprì un chiosco di libri tascabili a Forte dei Marmi. Durò una stagione».
Però era il primo passo verso la catena di librerie.
«Sì. Era sempre avanti, lui. Di parecchi anni».
Di frenesia in frenesia, scopriste i sudamericani, García Márquez, libri che hanno dato scandalo, incantato generazioni, e vi sono costati processi e condanne, da Testori a Kerouac.
«Per non parlare di Henry Miller. Nel ’62 fingemmo che Il Tropico del Cancro fosse stato stampato in Francia, solo per il mercato estero. Temevamo il sequestro. Per cinque anni lo vendemmo, in Italia, diciamo così di contrabbando. Fu una cosa molto misteriosa».
E molto divertente?
«Ci divertivamo tantissimo, lavoravamo tantissimo, ci credevamo altrettanto. I nostri giovani editor erano tutti matti».
Giangiacomo scrisse che voleva stampare libri per cambiare il mondo.
«E in qualche modo ci siamo riusciti, no? James Baldwin, il primo scrittore noto come gay - e pure nero, - fu tradotto da noi, negli Anni Sessanta. Allora sembrava una cosa incredibile. Pensi com’è cambiato il mondo, anche se negli Stati Uniti continuano a uccidere i neri».
Quali sono i libri cui è più legata?
«Rileggo ogni cinque anni Il Gattopardo. E ritengo molto importante Sotto il Vulcano, di Malcolm Lowry: forse non ha avuto tutta l’attenzione che merita, è un grande classico della modernità. Né posso dimenticare Cent’anni di solitudine, e in generale i libri di Doris Lessing e Nadine Gordimer, che sono state mie grandissime amiche».
Quanto conta l’amicizia in editoria?
«Enormemente. Bisogna capirsi nel profondo, condividere - l’editore deve sempre essere anche uno psicologo, il rapporto umano è tutto» .
Lei parlava di una sorta di internazionale dei giovani editori.
«Sì, eravamo in stretto contatto con Bourgois in Francia, Jonathan Cape in America, Michael Kruger in Germania e tanti altri...».
Vi sentivate molto e orgogliosamente internazionali?
«Ma anche italiani. Anzi, il nostro grande esempio era Giulio Einaudi».
Simile eppure diverso.
«Diciamo che i nostri libri erano molto più imprudenti. Noi eravamo una casa editrice divertente, di battaglia e di frenesia».
Lo declina al passato?
«Oggi tutto è più freddo, per necessità. Si deve porre un’enorme attenzione ai conti, l’editoria sforna troppi libri, è cambiato il modo di porsi rispetto a questo mestiere».
C’è un discrimine, secondo lei, un punto di passaggio?
«Gli Anni Ottanta segnano la fine della frenesia. Però devo aggiungere che io mi diverto ancora»