Corriere 16.5.15
Quando Giolitti non voleva la guerra: i negoziati prima del conflitto
risponde Sergio Romano
Il 26 aprile 1915, i vertici del potere regio-governativo impegnavano l’Italia all’entrata nella Grande guerra con il Patto di Londra, firmato senza prima informare il Parlamento e contro l’orientamento sia della maggioranza parlamentare, sia della popolazione. Dopo 100 anni, gli studiosi sono ancora spaccati in due: chi vede la decisione bellica come un atto politico antiparlamentare e antidemocratico (se non addirittura anticostituzionale), e chi sostiene che il potere politico dell’epoca aveva il diritto di decidere la guerra, anche contro la volontà parlamentare e popolare. La Grande guerra finisce nel 1918; solo 4 anni dopo, in Italia il cammino verso la liberaldemocrazia si blocca per dirigersi verso la dittatura. Si possono retrodatare al 1915 i primi segnali antidemocratici dell’Italia? Infatti, nella odierna Costituzione il potere di decidere la guerra appartiene al Parlamento.
Giuseppe Gaudiosi
Caro Gaudiosi,
Nel sistema costituzionale italiano, alla vigilia della Grande guerra, vi è una evidente contraddizione. Secondo l’art. 5 dello Statuto Albertino, «al re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere». Vittorio Emanuele III, quindi, non violava lo Statuto negoziando segretamente a Londra con gli Alleati l’ingresso dell’Italia nel conflitto. Ma la guerra sarebbe stata impossibile se le Camere non avessero conferito al governo il potere di stanziare le somme necessarie al finanziamento delle operazioni militari.
Quando si oppose alle intenzioni del governo, Giolitti non sapeva ancora quale parte il re avesse avuto nel negoziato con gli Alleati. Poteva contare sulla maggioranza della Camera e sperò per qualche giorno di convincere Antonio Salandra e Sidney Sonnino (presidente del Consiglio e ministro degli Esteri) a continuare le trattative con Austria e Germania per un accordo che avrebbe permesso all’Italia di scambiare la propria neutralità contro qualche vantaggio territoriale. Ma dovette rinunciare quando capì, dopo una conversazione con Vittorio Emanuele, che il re minacciava di abdicare e che la sconfessione dell’operato del governo avrebbe aperto una crisi costituzionale. Quanto ai sentimenti popolari in quel momento, caro Gaudiosi, è probabile che la maggior parte degli italiani non volesse il conflitto. Ma accanto a questa maggioranza silenziosa esisteva una minoranza vociferante e bellicosa che riempiva le piazze e voleva la guerra.
Giolitti uscì di scena, impose a se stesso il silenzio e rimase a Cavour, salvo un breve viaggio a Roma dopo Caporetto, per tutta la durata della guerra. Ma non cambiò le sue idee e lo disse con chiarezza, dopo la fine del conflitto, in un discorso pronunciato a Dronero il 12 ottobre 1919. Dichiarò che la guerra aveva complicato i rapporti fra gli Stati europei, che occorreva rafforzare la Società delle Nazioni e, con particolare riferimento all’Italia, che era necessario assicurare «la diretta influenza del Paese sulla politica estera». Non era logico, sostenne, che i trattati internazionali venissero negoziati dietro le spalle della Camera, salvo chiederle, a cose fatte, il denaro necessario per le spese di un conflitto. A chi invocava lo Statuto Albertino, ricordò che nel 1848 «il segreto diplomatico era la norma per tutti gli Stati d’Europa» e le guerre si facevano con soldati di mestiere. Ancora più esplicitamente disse: «Se il Patto di Londra del 26 aprile 1915 fosse stato portato all’esame del Parlamento, o anche solamente di una commissione parlamentare, ne sarebbero state rilevate le deficienze che ebbero poi conseguenze così disastrose».