Corriere 12.5.15
Le parole proibite sulla crisi greca
di Francesco Daveri
Passano le settimane e le scadenze ma nulla sembra cambiare nella partita a scacchi tra la Grecia e il resto dell’Europa: quasi che lo stallo fosse un nuovo paradossale stato di quiete.
Atene sta dando fondo alle ultime riserve di denaro pubblico per far fronte alla montagna di rimborsi del debito che ha davanti. Altre montagne ancora più impegnative attendono il governo greco, dopo i 760 milioni di dollari girati ieri al Fondo monetario la prossima scadenza è la necessità di rinnovare un prestito di 1,4 miliardi di euro in buoni del Tesoro a tre mesi entro la metà di maggio.
Ma oltre al debito estero il governo greco deve però far fronte anche al debito interno, quello che ogni governo intrattiene con i suoi concittadini il cui reddito dipende dallo Stato. I dipendenti pubblici e i pensionati alla fine di maggio come ogni mese si aspettano di ricevere i loro stipendi, per un totale di 2,5 miliardi di euro. E far fronte ai pagamenti interni è l’esigenza numero uno per un governo eletto a furore di popolo proprio con il mandato di ridare dignità a un Paese vessato da anni di umiliazioni e di mai digerita austerità fiscale.
Recuperare la dignità nazionale è difficile se un governo non ha risorse proprie per far fronte alle promesse fatte ai concittadini. Il fallimento del governo di Atene non viene solo dal mancato rimborso del debito di oggi ma — più gravemente — dalla sua incapacità di convincere i cittadini greci a pagare le imposte per finanziare i servizi pubblici. Ben prima dell’arrivo della troika , uno Stato che non riesce a raccogliere le tasse non è più uno Stato. Non solo: parafrasando un detto della Rivoluzione americana, uno Stato che non sa raccogliere le tasse non riesce a essere rappresentato al pari degli altri a livello internazionale.
Eppure, anche se Atene ha un sistema di rappresentanza politica difficile da difendere, l’Europa non può lasciare andare la Grecia alla deriva alla quale i suoi politici la stanno condannando. I Paesi sulle soglie di un default sul proprio debito spesso eleggono leader politici che promettono soluzioni senza sacrifici. È stato così che alle recenti elezioni ha vinto Tsipras, un leader che prometteva di rimanere nell’euro senza rispettarne le regole. Addirittura esigendo — come si è visto nei (non) negoziati delle settimane successive — un’immediata riscrittura di accordi siglati dai suoi predecessori con la troika di Bce, Commissione europea e Fondo monetario. Ma l’ignavia dei politici greci di oggi non autorizza l’Europa a voltarsi dall’altra parte.
Anche perché la Grecia non ha certo fatto tutto da sola. L’esplosione del deficit greco al 13 per cento del Pil nel 2010 non fu solo il risultato di sotterfugi contabili dei politici greci ma anche dell’incapacità di Eurostat, l’istituto statistico incaricato di «bollinare» le cifre fornite dai singoli governi, e dell’Europa politica di monitorare il vero andamento dei conti pubblici greci. Nonostante la dichiarata attenzione all’algebra del rigore fiscale, si decise allora di optare per un controverso salvataggio del debito greco che volle anche dire salvare le banche tedesche e francesi pesantemente esposte nei confronti di Atene.
Oggi che il debito greco è diventato un debito a tassi quasi zero verso Paesi europei e istituzioni internazionali, è arrivato il momento di pronunciare le parole proibite che allora si decise di non proferire: ristrutturazione e cancellazione parziale del debito. In forme e modi che la diplomazia riuscirà a trovare: allungando ulteriormente le scadenze o riducendo il valore nominale dei debiti in essere. Se non si accetta di pronunciare le parole proibite, la quiete di oggi potrebbe presto lasciare lo spazio a una tempesta che non riguarderebbe solo la Grecia ma tutta l’Europa.