giovedì 9 aprile 2015

Repubblica 9.4.15
Siria
Nel campo ostaggio dell’Is un giovane palestinese prova a dare conforto ai sopravvissuti con le note
“Qui c’è solo desolazione, dovevo nutrire il mio spirito”
La leggenda di Aeham il pianista di Yarmuk “Suono la mia musica per regalare speranza”
di Alix Van Buren


SEVI capita di andare in quel girone infernale che è il campo di Yarmuk — 18 mila anime ridotte a larve umane sulle rovine di un borgo dove sciamavano mercanti, notabili borghesi e nugoli di bambini, ma in cui ora spadroneggiano i jihadisti di Al Qaeda e dello Stato islamico — non dovete sorprendervi se nell’aria sentite volare le note di Beethoven. In qualche angolo, fra i cumuli di calcinacci, c’è Aeham che sfida il demone della morte, picchiando sui tasti d’ebano e d’avorio del pianoforte. Il suo nome per esteso è Aeham Ahmad, ma tutti insistono nel chiamarlo il Leggendario Pianista di Yarmuk, alle porte di Damasco. Ogni giorno che il cielo è bello, cioè nelle pause della pioggia battente che da due anni scarica su Yarmuk missili e bombe e proiettili, lui esce di casa — o quel che resta delle stanze sbrecciate dai colpi — tira fuori il carretto dello zio fruttivendolo, carica il piano e va a suonare, testardo, per riportare l’eco della vita alla perduta gente fra torri vuote e annerite a perdita d’occhio.
A osservarlo da vicino, Aeham sembra un fumetto: 27 anni, se ne sta seduto alla tastiera, le brache troppo larghe di chi è sciupato dalla fame, il maglioncino appeso a due spalle magre come stampelle, il sorriso serio sotto lo sguardo arrabbiato. Somiglia all’altrettanto mitico Handala, il Charlie Brown palestinese disegnato da Naji Al-Ali, ritratto sempre di schiena, le toppe al sedere, simbolo potente della lotta palestinese per la giustizia e l’autodeterminazione. Aeham è palestinese, al pari dei 18 mila sequestrati in questa città dolente: Mukhayyam al-Yarmuk, il campo di Yarmuk, come segnalano i cartelli stradali ora contorti in grottesche lamiere astratte.
La musica Aeham l’ha nel cuore, da sempre. Tempo fa raccontava d’essersi seduto al piano a cinque anni d’età; poi, ancora bambino s’era iscritto al Conservatorio arabo di Damasco per un decennio di musica classica. Insegnava ai piccoli del campo. Finché la guerra, due anni fa, per un po’ lo ha azzittito. «All’inizio dell’assedio volevo rinunciare alla musica, restare neutrale nel conflitto siriano. Vendevo falafel, e tenevo la musica chiusa nel cuore. Ma dopo sei mesi, non riuscivo più a contenerla: era più forte di me. Perciò ho ripreso il mio piano, l’ho fissato sul carretto dello zio ortolano, e ho cominciato a trasportarlo fra i quartieri più deprimenti per ridare speranza».
«C’era solo desolazione», dice attraverso il traduttore e giornalista Moe Ali Nayel. «Tutte le persone care che riempivano le vie col loro gioioso frastuono se n’erano andate». Il dolore di Aeham prende corpo la notte del 16 dicembre, la caduta di Yarmuk, una domenica di due anni fa. Il campo, all’inizio neutrale per volontà degli abitanti e dei comitati civili, solo in parte solidali con le manifestazioni contro il regime, quella notte si arrese all’assalto di gruppi armati: una teoria di diverse brigate e battaglioni, dai qaedisti del Fronte Al Nusra ai jihadisti di Al Furqan accodati all’Esercito libero siriano. Al loro ingresso, il campo si svuotò: il 17 dicembre oltre 140 mila civili erano già fuggiti. Rimasero i più poveri, gli anziani, i malati, i 18 mila ora ostaggio di Al Qaeda e dell’Is. L’esodo coincise con l’arrivo di altri combattenti. Yarmuk divenne la testa di ponte per l’attacco a Damasco: un parallelepipedo di due chilometri quadri, cinto d’assedio lungo tre lati dall’esercito siriano che fa da muro fra il campo e Damasco, col quarto lato aperto verso il quar- tiere di Hajar al Haswad e la Ghouta, terra di ribelli e jihadisti. All’interno del campo, 14 fazioni palestinesi si dividono fra lealisti e anti-Assad.
«Dovevo nutrire il mio spirito», s’inalbera Aeham. «Perciò, nonostante la fame e l’assedio ho continuato a suonare il mio piano. Prima solo musica classica; ora compongo pezzi che parlano della crisi ». Con le sue dita lunghe, magre, intirizzite dal freddo, il pianista di Yarmuk suona per i bambinelli e i ragazzi che gli stanno intorno, i corpi di stracci, denutriti, di chi per lungo tempo ha resistito nutrendosi di lenticchie, ravanelli, mangime per bestiame, erba, finché, esauriti anche quelli, s’è cibato di cani, ha spellato gatti, ha stanato topi per ricavare anche da questi un immondo pasto. Anemia, rachitismo e fame hanno fatto circa 200 morti. «Promesse, promesse, promesse! Mentre la nostra gente muore», cantano, anzi gridano i giovani attorno al piano mentre la sirena di un’ambulanza li assorda.
Aeham non molla, nemmeno ora che Yarmuk è preda dei barbari dell’Is e di Al Qaeda in Siria (Fronte Al Nusra). Ancora pochi giorni fa, mentre già rotolavano teste mozzate per le vie del campo, e mani tagliate a bambini di 12 e 14 anni, lui scriveva: «Non andatevene, tornate, siamo fuggiti troppo a lungo». E si riferiva ai palestinesi profughi del 1948, il popolo perduto di Yarmuk, già scappati o espulsi nella guerra precedente alla nascita di Israele. Ieri sera è riuscito a scrivere una riga rassicurante: «Stiamo bene. La notte ci ha portato sollievo». Martedì ha sfidato l’Is, postando una foto di sé sorridente in mezzo alle vie deserte. Mentre la voce di Aeham s’allontana, Zeina Hashem Beck, la poetessa libanese, gli dedica i suoi versi: «Suonaci una musica che parli di briciole di pane, uomo triste, suonaci una nota per il sonno, un’altra per gli uccellini degli alberi mangiati dai bambini per fame... Qui non ci sono sale da concerti, solo dita intirizzite, cani scheletrici. Perciò inventa un’allegra canzone araba, affinché possiamo morire, come gli uccellini che abbiamo mangiato, cantando, cantando».