martedì 7 aprile 2015


Repubblica 7.5.15
La parola sinstra /3
La sindrome di Pasolini che colpisce le democrazie
Non avendo più i mezzi per rilanciare la crescita controllare la moneta e le frontiere, i governi suscitano emozioni per mascherare l’impotenza
di Christian Salmon


ALL’INDOMANI della sconfitta elettorale, Manuel Valls ha annullato la sua partecipazione al consiglio dei ministri franco-tedesco per recarsi al capezzale dei deputati socialisti. In un’atmosfera gelida, il premier francese, che si era impegnato personalmente nel corso della campagna elettorale, ha tentato di spiegare le ragioni della disfatta del suo partito: un’astensione molto alta, la diffidenza verso la politica, la disoccupazione, le tasse… Il primo ministro ha evocato anche «un sentimento di abbandono, in certi casi psicologico, che il calo della disoccupazione non basterà a risolvere», «un problema più profondo che la Francia porta dentro di sé» ha detto con un eufemismo criptico che appartiene probabilmente a quella “lingua morta” che è diventata la parola pubblica, a suo dire. Cos’è dunque questo problema profondo che la Francia «porta in sé», come stimmate o blasone, se non la questione dell’identità francese, luogo comune dei commentatori politici? «Spetta a noi portare il talismano dell’unità», ha concluso Manuel Valls con enfasi. Il talismano, come non averci pensato! Se le parole hanno un senso, il talismano è indice di uno scivolamento inesorabile del pensiero politico verso il pensiero magico.
L’AZIONE del governo dunque letta non più come l’incontro ragionato di deliberazione collettiva e potere di agire, ma come una forma di pensiero magico, consacrata interamente a evocare attraverso incantesimi e imprecazioni tutto quello che non si sa come fare: l’unità della sinistra, l’inversione della curva della disoccupazione, il ritorno definitivo e duraturo della crescita “amata”… Nel suo famoso “Articolo delle lucciole”, nel 1975, Pier Paolo Pasolini aveva diagnosticato nel linguaggio stesso dei dignitari democristiani il sintomo di un male più profondo: il vuoto del potere. Nel 1978, nel suo libro sull’affare Aldo Moro, Leonardo Sciascia aveva raccolto il testimone di Pasolini adottando come corpus le lettere scritte dal politico democristiano mentre era nelle mani delle Brigate rosse. Mostrava come un uomo di Stato quale Moro, prigioniero di una certa concezione dello Stato, una finzione dello Stato, si esprimeva dalla sua «prigione del popolo», chiuso dentro una finzione del popolo. Come un uomo che cade da una finzione in un’altra finzione e perde la propria lingua: «Ha dovuto tentare di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità». Pasolini, Sciascia: due uomini-medicina della logopatia politica che hanno saputo diagnosticare nella degenerazione del linguaggio politico, come avevano fatto prima di loro George Orwell, Hannah Arendt o Victor Klemperer, un male più profondo che minacciava la democrazia stessa: «Come scriveva sempre Pasolini, solo nella lingua si sono avuti dei sintomi».
È esattamente quello che sta succedendo ai governanti di tutto il mondo, più ancora in Europa e in modo estremo in Francia a causa della concentrazione del potere esecutivo introdotta dalla Quinta Repubblica francese. Chiamiamolo il “momento pasoliniano” delle post-democrazie.
La globalizzazione si è portata dietro, in ogni parte del mondo, una denazionalizzazione dello spazio economico, che ha l’effetto paradossale di provocare una rinazionalizzazione dei dibattiti politici. Il trasferimento di certe componenti della sovranità statale verso altre istituzioni ha favorito un ritorno del nazionalismo che la politologa americana Wendy Brown ha descritto come «il teatro della sovranità perduta». Questo teatro in Francia fa le veci del dibattito pubblico dall’inizio degli anni Duemila: l’ortodossia neoliberista lancia l’anatema sugli assistiti, l’impensato coloniale riaffiora, l’odio dello straniero diventa l’unico contenuto di un patriottismo che sopravvive allo stadio di zombie, l’estrema destra fa il gioco delle ingiunzioni neoliberiste che sostiene di combattere lanciando anatemi su disoccupati, assistiti, truffatori… Dappertutto la stessa pigrizia xenofoba, lo stesso scatenarsi di passioni tristi, la stessa passione mai sazia di svilire il dibattito democratico con l’insulto, l’anatema. La Quinta Repubblica, che fino a questo momento garantiva una certa stabilità politica, ormai contribuisce soltanto alla glaciazione della vita democratica. Dal 2002 in poi, è lo stesso gioco di ruolo che va in scena intorno agli stessi dibattiti e con gli stessi personaggi zombie che cercano di farsi (ri)eleggere, l’inamovibile trio che tiene col fiato sospeso i cronisti: Sarkozy, Hollande, Le Pen. La Quinta Repubblica ormai serve soltanto a perpetuare, contro i sondaggi e gli elettori, una classe politica col fiatone.
Non avendo più i mezzi per rilanciare la crescita, controllare il corso della moneta, sorvegliare le frontiere, i governi cercano di suscitare degli effets de croyance, delle percezioni. Come diceva un residente dell’Arizona che viveva nei pressi del muro eretto lungo la frontiera con il Messico: «Il governo non controlla la frontiera. Controlla quello che gli americani pensano della frontiera ». Lo stesso si può dire della moneta, dell’occupazione e dell’attività economica. Governare oggi vuol dire controllare la percezione dei governati.
La postura del “volontarismo” è la forma che prende la volontà politica quando il potere è privato dei mezzi per agire. La sua credibilità vale quanto vale la potenza effettiva dello Stato. Se questa potenza non ha più i mezzi per essere esercitata, il volontarismo viene smascherato come una postura. E allora deve raddoppiare d’intensità, deve mettersi in mostra con più forza per recuperare credibilità, dimostrazione che accentua ancora di più il sentimento di impotenza dello Stato. È la spirale della perdita di legittimità. Manuel Valls da un anno è precipitato in questa spirale. Ogni mercoledì, all’Assemblea nazionale, nel giorno delle interrogazioni parlamentari, si accalora, gesticola, gli trema la mano, punta il dito sui suoi avversari. La sua aggressività scimmiotta l’autorità. Tenta con la collera di mascherare la sua impotenza.
I democristiani, scriveva Pasolini nel 1975, «non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una “normale” evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura. […] Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient’altro che il luttuoso doppiopetto».
Dopo il 2012, i socialisti francesi hanno continuato a fare politica nel vecchio modo, con feudi, regioni e sicari, contando unicamente sull’oscillazione del pendolo elettorale, che offriva loro l’alternanza, senza nemmeno cercare di comprendere che cosa significasse ancora l’agire politico nel momento in cui la nazione perde strumenti essenziali della sua sovranità. Così si sono cullati nell’idea che non fosse cambiato nulla, che per esempio avrebbero potuto contare per sempre sull’Europa, cui una maggioranza degli elettori aveva detto no nel 2005 senza che loro cambiassero nulla, politicamente, della loro concezione dell’Europa, della loro relazione con l’Europa, senza rendersi conto che la crisi del debito sovrano scavava in seno all’Europa un muro non tra est e ovest, ma tra nord e sud, e che questo muro attraversava la Francia, tagliandola socialmente in due. Si sono cullati nell’idea che avrebbero potuto continuare ad affidarsi alla politica neoliberista cui avevano ceduto negli anni Ottanta, nonostante la crisi del 2008 ne avesse dimostrato gli effetti devastanti. Si sono cullati nell’illusione di cedere all’ipermediatizzazione, affidando ai media la loro sopravvivenza nei sondaggi, barattando la trasformazione reale della società con la sopravvivenza mediatica. Si sono cullati nell’illusione di poter contare per sempre sulla polizia per mantenere le gravi disuguaglianze nei quartieri. Si sono lasciati andare alla tentazione di stigmatizzare le minoranze, perseguitare gli stranieri, per rivaleggiare con le politiche di sicurezza della destra. Hanno considerato “coraggio” quello che era solo un codardo cedimento allo spirito del tempo. Hanno creduto di poter cullare nell’illusione l’opinione pubblica, dichiarando guerra alla finanza mentre firmavano un armistizio con le banche e gli industriali. Hanno creduto di poter ritrovare un’egemonia culturale prendendo in prestito dalla destra e dall’estrema destra lessico e immaginario, con il pretesto di non lasciare loro il monopolio della nazione, e hanno insediato stabilmente al centro del dibattito le tematiche regressive del Fronte Nazionale. (Traduzione di Fabio Galimberti)