Repubblica 7.5.15
Né atea né devota perché la scienza non respinge l’idea di Dio
Due saggi riportano al centro del dibattito l’ipotesi kantiana che fede e sapere siano distinti ma per nulla incompatibili
di Vito Mancuso
NELLA Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura del 1787 Kant scriveva: «Ho dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede». Con la delicata espressione “sospendere il sapere” egli intendeva in realtà la demolizione della metafisica da lui attuata con il suo capolavoro pubblicato in prima edizione nel 1781. Quanto alla fede, verso la fine della Critica della ragion pura si legge: «La fede in un Dio e in un altro mondo è a tal punto intrecciata col mio sentimento morale, che non corro un pericolo maggiore di perdere quella di quanto non lo corra di perdere questo». La fede per Kant non ha nulla a che fare con il sapere ma procede dalla morale. Contro questa prospettiva insorse Hegel, il quale nel 1802 scrisse un saggio appositamente intitolato Fede e sapere e dedicò buona parte della sua filosofia a riconciliare la frattura operata da Kant.
Così nella Enciclopedia delle scienze filosofiche : «Poiché l’uomo è pensante, né il buon senso né la filosofia si faranno mai persuadere a non elevarsi da e per mezzo della contemplazione empirica del mondo a Dio». E ancora: «Dire che questo trapasso non debba essere fatto, è dire che non si debba pensare».
La divisione radicale sul rapporto sapere-fede tra i due più grandi filosofi della modernità, entrambi credenti ed entrambi malvisti dall’ortodossia ecclesiastica, pone la domanda: il sapere rimanda a Dio o è solo tramite il sentimento morale che vi si può giungere?
Oggi rispetto a quei tempi il ruolo del sapere, soprattutto di quello scientifico, ha cambiato direzione e viene evocato a supporto non più della fede in Dio, come avveniva allora, ma della sua negazione. È sostanzialmente la prospettiva hegeliana mutata di segno: se si considera il sapere offerto dalla scienza, Dio appare del tutto implausibile. Così sostiene il “Nuovo Ateismo”, movimento sorto all’inizio di questo secolo a opera di autori come Richard Dawkins, Daniel Dennett, Christopher Hitchens. In diretta polemica con questa prospettiva esce nella collana di Raffaello Cortina “Scienza e idee” diretta dal filosofo della scienza Giulio Giorello (ateo, ma di vecchio stile) un libro brillante e assai documentato di Amir D. Aczel: Perché la scienza non nega Dio . Dotato di una robusta formazione matematica e fisica che lo porta a discutere senza alcun complesso di inferiorità con i maggiori scienziati a livello mondiale e che gli ha fatto scrivere uno dei libri migliori sul fenomeno forse più sorprendente della meccanica quantistica detto entanglement, e convinto che «il Dio delle interpretazioni letterali delle Scritture redatte per popoli primitivi migliaia di anni fa certo non esiste», Aczel ripercorre tutti i campi della scienza contemporanea arrivando alla conclusione che lo stato attuale della ricerca scientifica ci consegna alla tesi sostenuta da Kant: la scienza né afferma né nega Dio. Offre piuttosto una serie di dati sull’estrema improbabilità di questo universo e dell’emersione in esso della vita così da alimentare ancor più le domande e le inquietudini: come spiegare la circostanza che ha condotto le costanti della natura a rivelarsi così finemente sintonizzate per la nascita della vita e dell’intelligenza?
Quello che oggi sappiamo non elimina ma piuttosto accresce la sensazione di mistero, a cui rimandano queste parole di Einstein citate da Aczel: «Chiunque si occupi seriamente di scienza si convince pure che una sorta di spirito, di gran lunga superiore a quello umano, si manifesta nelle leggi dell’universo. In questo senso la ricerca scientifica conduce a un sentimento religioso particolare, del tutto diverso dalla religiosità di chi è più ingenuo». Chi quindi esce sconfitto dalla ricerca scientifica odierna è il dogmatismo: sia quello teista, che ritiene che Dio possa essere «conosciuto con certezza attraverso le cose create» come stabilisce il Concilio Vaticano I, sia quello anti-teista, che ritiene che attraverso la natura Dio possa essere negato con altrettanta certezza. Siamo così rimandati alla prospettiva di Kant: la scienza offre dati a partire da cui si possono sviluppare diverse visioni del mondo, come di fatto avviene tra gli stessi scienziati, alcuni dei quali sono atei, altri credenti (tra questi nel ‘900 il padre della teoria dei quanti Max Planck, il padre del principio di indeterminazione Werner Heisenberg, il padre della teoria del Big Bang Georges Lamaître, uno dei protagonisti della decifrazione del genoma, Francis Collins, e in Italia i fisici Nicola Cabibbo e Ugo Amaldi, e la biologa e senatrice Elena Cattaneo). Se poi è vero che oggi gli scienziati in maggioranza sono atei, ciò non dipende dalla scienza, che può solo consegnare a quel senso di domanda continua evocato da Einstein, ma dalla povertà della religione attuale, arroccata nel proprio patrimonio dogmatico e incapace di assumere lo spirito della libera indagine.
Certo, non tutti i modi di ne- gare Dio sono uguali. Su questo tema il filosofo genovese Roberto Giovanni Timossi ha appena pubblicato da Lindau Nel segno del nulla. Critica dell’ateismo moderno , una guida ragionata alle diverse forme di negazione di Dio. Autore di molte rigorose pubblicazioni, logico e filosofo della scienza, editorialista di Avvenire , Timossi classifica gli ateismi secondo quattro tipologie: 1) antropologico: per essere uomini occorre liberarsi dell’idea infantile di Dio; 2) sociopolitico: la religione è oppio dei popoli; 3) scientifico: la scienza nega Dio; 4) antiteodicetico: il male nega Dio. Secondo il credente Timossi l’ateismo non ha l’ultima parola, tuttavia può giocare un ruolo importante al cui proposito egli cita Dostoevskij, cristiano convinto ma anche autore di pagine di critica atea tra le più mirabili: «Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della fede più perfetta».