Repubblica 4.4.15
Quella svolta di Obama che spaventa lo Stato ebraico
di Gad Lerner
IL MONDO esulta, Israele trema. Nella cena pasquale che ieri sera ha riunito milioni di famiglie ebraiche, quando è venuto il momento di mangiare l’erba amara della schiavitù insieme al pane azzimo dell’Esodo, è parso come se l’accordo di Losanna rinnovasse il più antico dei sapori: l’incomprensione fra gli ebrei e le altre nazioni. Per la verità sui giornali israeliani le valutazioni erano più articolate, taluni riconoscevano che i 5+1 hanno fatto un buon lavoro. Ma l’Iran degli ayatollah rappresenta nel senso comune d’Israele un pericolo di natura esistenziale: la versione contemporanea dell’antisemitismo, scaturita da quel misterioso sommovimento rivoluzionario del 1979 come una pulsione insopprimibile, quasi un evento tellurico ininterrotto da trentacinque anni. Tale visione ha assunto connotati apocalittici. La trasformazione dell’impero persiano nell’ossimoro di una repubblica al tempo stesso islamica e rivoluzionaria, con l’effetto contagioso di sospingere tutti i popoli musulmani alla contrapposizione antioccidentale, ha sbigottito Israele. La promessa di distruggere il “piccolo Satana” e il rilancio delle tesi negazioniste sulla Shoah, vengono interpretati dai religiosi messianici come segnali dell’approssimarsi di una catastrofe ne- cessaria in vista della redenzione ormai prossima. Le “doglie del Messia”, appunto. La lotta fra Gog e Magog. Accadimenti dolorosi, come la stessa dissoluzione della Siria, eppure inequivocabili: cioè necessaria preparazione all’avvento del Mondo a Venire.
Non sto esagerando. Ho appena trascorso un mese nella città mistica di Zfat, in Galilea, e di continuo mi sentivo ribadire argomenti simili. Veterani di tre guerre, che ancora oggi vivono a pochi chilometri dalla polveriera siriana e libanese, anziché soffermarsi sui pericoli che attanagliano la loro stessa esistenza, compiangevano me, ebreo di un’Europa che considerano già perduta, prossima all’islamizzazione. Davvero in tanti mi hanno ripetuto come un’ovvietà che lo stesso presidente americano Obama — come non accorgersene? — è un musulmano mascherato. Il 17 marzo scorso, davanti ai seggi in cui si votava per il rinnovo della Knesset, c’erano ragazzi che innalzavano festanti le bandiere gialle con la parola Messia sormontata da una corona, per annunciare l’irrilevanza della scelta politica quando siamo ormai giunti alla Fine dei Tempi.
Anche su presagi di questa natura si è fondata la strategia fallimentare del laico Netanyahu, che lo avrebbe già portato nel 2012, dopo la guerra informatica e gli omicidi mirati degli scienziati iraniani, a lanciare un attacco militare contro i reattori nucleari di Teheran; se non lo avesse bloccato all’ultimo momento la ferma opposizione dichiarata dai capi del Mossad e delle forze armate.
Quelle azioni unilaterali di Netanyahu non sono valse a bloccare la trattativa del quintetto con l’Iran. Ma — anche a prescindere dalle tesi apocalittiche del sionismo religioso — l’elevazione dell’Iran a nemico principale non viene contestata neanche dall’opposizione laburista. Herzog ha criticato il maldestro tentativo di Netanyahu di paralizzare Obama confidando sulla maggioranza repubblicana del Congresso americano. Lascia perplessi anche l’alleanza di fatto che collega, in chiave anti-sciita, Israele alle petromonarchie reazionarie sunnite del Golfo, prima fra tutte l’Arabia Saudita.
Eppure, se perfino un intellettuale critico come David Grossman continua a vedere nell’Iran un nemico mortale, ciò significa che è pressoché tutto Israele ad escludere la possibilità che la rivoluzione degli ayatollah possa essere contenuta e rinunci a sprigionare la sua vocazione destabilizzatrice.
Questo è il nodo, o, meglio l’azzardo implicito nella svolta voluta da Obama. Possibile che la repubblica islamica di Teheran, contraddistinta da regole elettorali democratiche a differenza dei vicini sunniti che anche per questo la temono, ma assoggettata alla supervisione teocratica della Guida Suprema religiosa, possa infine esaurire quella temibile spinta rivoluzionaria? Bastano i trentacinque anni trascorsi dal 1979 o sono ancora troppo pochi?
L’esultanza commovente con cui la società civile iraniana accoglie l’accordo di Losanna, una società non paragonabile alle nazioni tribali circostanti, evoluta nella modernità delle aspirazioni che la avvicinano alla cultura occidentale, non basta agli israeliani per sperare e fidarsi. Per quanto risulti impossibile paragonare la struttura complessa dell’Iran contemporaneo alla fanatica compattezza della Germania nazista, prevale il timore che l’Islam sciita produca ulteriori spinte di esportazione di un integralismo avulso dalle logiche razionali delle relazioni internazionali fra Stati. La storia suggerisce il contrario, induce alla fiducia: è ragionevole pensare che un paese il quale si concepisce come impero da oltre quattromila anni, dotato di una scuola diplomatica raffinata, aperto alla sperimentazione di un pluralismo interno sconosciuto ai suoi vicini (cui tuttora l’accomuna, purtroppo, il ricorso sistematico alla pena di morte), tenda certo a riacquistare una sfera d’influenza. Ma che proprio per questo sia destinato a normalizzarsi.
Tale prospettiva, agli occhi d’Israele, non trova credito. Neanche basta la distanza di migliaia di chilometri fra Gerusalemme e Teheran, l’assenza di un contenzioso geopolitico diretto: la minaccia nucleare annulla lo spazio, l’ispirazione religiosa della Guida Suprema rende plausibile l’azione dissennata. Né aiuta a rassicurare Israele il dispiegamento sui suoi confini settentrionali dell’armata sciita degli Hezbollah sciiti, per quanto il loro leader Nasrallah si dichiari contrario all’instaurazione della Sharia, la legge islamica, in un Libano per sua natura mosaico di confessioni religiose diverse.
Trova spazio così la visione apocalittica che delega al governo israeliano solo il compito di boicottare l’accordo di Losanna. Addirittura evocando il diritto a ricorrere se necessario a un’azione militare autonoma, come ha fatto di nuovo ieri il ministro Yuval Steinitz. Mentre il premier Netanyahu inutilmente si limita a porre la condizione che Teheran non accetterà: nessun accordo definitivo senza il preventivo riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato d’Israele.
Ora tutto dipende dalle incognite che minacciano il percorso di normalizzazione avviato con l’Iran degli ayatollah. Se la guerra al Califfato e Al Qaeda riuscirà in tempi ragionevoli a debellare il nuovo totalitarismo in espansione, usufruendo dell’aiuto decisivo dell’Iran sciita. Se l’alleanza di fatto fra le nazioni sunnite e Israele non riaccenderà una guerra frontale con Teheran, proprio quando gli Usa aspirano a recuperare l’Iran come architrave di un nuovo equilibrio regionale, come ai tempi dello Scià di Persia.
Se a vincere sarà la pulsione religiosa, l’istinto genocida alla distruzione del nemico, il tanto peggio tanto meglio che dal Medio Oriente sta contagiando regioni sempre più vaste del pianeta, allora l’amarezza e l’isolamento d’Israele troveranno la più cupa delle conferme. Verrebbe da dire che abbiamo il dovere di sperare il contrario e di esperire ogni possibile trattativa. Altrimenti — se davvero fosse impossibile un ritorno dell’Iran rivoluzionario alla normalità delle relazioni internazionali — Israele non troverebbe alcuna consolazione nell’avere ottenuto conferma del suo pessimismo.