mercoledì 29 aprile 2015

Repubblica 29.4.15
Avvertimento alla Casa Bianca
di Vittorio Zucconi


A UN’ORA appena di automobile dalla Casa Bianca e dalla capitale degli Stati Uniti, Baltimora è in stato d’assedio. La guerra in bianco e nero è arrivata a 80 chilometri dagli appartamenti di Michelle e Barack Obama. Occupano oggi Baltimora diecimila armati fra militari della Guardia Nazionale, agenti da tutto il Maryland e poliziotti locali.
DALL’ESPLOSIONE di rabbia nel Missouri, a Ferguson, nove mesi or sono, mai l’onda lunga delle rivolte urbane era arrivata così vicina al cuore del potere nazionale. Anzi, così dentro il cuore, perché l’area di Baltimora-Washington è considerata come un’unica megalopoli integrata nei trasporti, nell’economia, nel pendolarismo quotidiano e addirittura nelle passioni sportive. Gli incontri di football o di baseball fra i club delle due città gemelle sono vissuti come nelle città italiane si vivono i “Derby”.
Se quanto è avvenuto a Baltimora nella notte di lunedì, con decine di case incenerite, di minimarket, drugstore, ristoranti, addirittura una bella e grande casa di riposo per anziani indigenti in costruzione distrutti e almeno 17 feriti sia un’altra “scossa di assestamento” dello stesso terremoto o sia un aggravamento del sisma sociale e razziale sarebbe ozioso dire, proprio perché la metafora geologica è quella che va applicata a quanto sta accadendo al fronte della guerra urbana. Sotto la crosta della pacificazione razziale, sotto la fioritura evidente e forte di una nuova classe sociale di afroamericani di successo che proprio a Washington, con il presidente Obama e a Baltimora, con il sindaco Stephanie Rwalings-Blake, avvocata di successo anche lei di etnia africana, le placche tettoniche dell’incomprensione e dell’odio continuano a spingere l’una contro l’altra e a produrre periodici, inevitabili sommovimenti.
La causa occasione di questa nuova battaglia di strada è stata la morte di un sospetto, Freddie Gray, arrestato per motivi oscuri come la sua pelle, e poi morto in custodia per lesioni alla spina dorsale, una causa di morte che fa inevitabilmente pensare a botte e maltrattamenti nel furgone dove era stato rinchiuso, prima di raggiungere l’ospedale. Ma neppure i genitori, gli amici, i parenti, i vicini di questo giovanotto di 25 anni avevano chiesto al suo funerale una sollevazione di strada e una notte di guerriglia metropolitana che hanno poi unanimemente condannato.
La notte che ha incendiato Baltimora è stata combustione spontanea, accesa da una miscela violenta fra gang, di collera giovanile, di ribellismo senza una causa precisa, se non l’impulso alla devastazione. La maggior parte dei “guerriglieri” erano appartenenti alle bande di quartiere, come gli immancabili “Blood” e “Crips” o teenager studenti del liceo pubblico della zona colpita. Ci sono sequenze impressionati e quasi commoventi di genitori, soprattutto di madri, che inseguono i propri figli camuffati in passamontagna, zainetto e cappuccio della felpa sul capo, per prenderli a schiaffi e rimandarli a casa a calci nel didietro.
Ma le circostanze non cambiano né spiegano la sostanza che rimane l’urto sotterraneo fra le placche culturali, sociali e a volte, ma non sempre, razziali che formano la nazione continente nord americana. Il paradosso, che l’esplosione dei quartieri poveri di Baltimora ha fatto emergere dal sottosuolo, è che proprio il successo, i progressi della nuova “middle class” afroamericana, insieme con le altre popolazioni di recenti immigrati asiatici e latinos che avanzano, ha reso ancora più lancinante la condizione di coloro che hanno perduto il treno delle occasioni create dalla grande battaglia per i diritti civili condotta negli anni ‘60 e ‘70.
Chi è rimasto fermo, o è scivolato all’indietro, in città proprio come Baltimora che negli anni ‘80 e ‘90 avevano conosciuto un visibile Rinascimento dopo il Medioevo del tramonto industriale, vive in maniera ancora più bruciante la propria estraneità al nuovo mondo degli afroamericani che ce l’hanno fatta. La comunione del colore della pelle, inasprisce, non attenua il senso della propria distanza da uomini e donne come il professor Obama, come l’elegante avvocata Rawlings-Blake, figlia di un pediatra di gran nome ed eletta sindaco con l’87 per cento dei voti, come gli ormai molti capi delle polizie urbane, uomini e donne visti e vissuti non come esempi da seguire, neppure da chi siede sui banchi dei licei pubblici, ma come “traditori” passati ai “bianchi”. Nelle scuole, anche nelle migliori, gli studenti afro americani che hanno buoni esiti si sentono spesso rimproverare dagli altri, dai meno fortunati, dai meno diligenti, dai futuri friggitori di hamburger e patate fritte a vita, di “act white”, di comportarsi come l’uomo bianco.
Nella disperazione del sentirsi condannati al fondo del barile sociale, per propria o per altrui responsabilità non importa, ogni contatto con l’espressione più dura e immediata del potere, la polizia, il braccio armato del “Man”, del padrone, questi naufraghi e profughi della rivoluzione etnica trovano la conferma della iniquità, ormai affidata anche a coloro che sembrano, ma non sono più, “brothers and sisters”, fratelli e sorelle di colore. Tra la sfacciata, impunita brutalità della polizia, che non è solo bianca, e la certezza della propria condanna a vita a restare sull’ultimo gradino sociale, l’assalto al minimarket, il saccheggio delle bottiglierie, la molotov, lo scambio di proiettili, le cariche e le controcariche diventano l’unica forma di espressione.
La placca sotterranea degli esclusi a vita si è ridotta, ma si è fatta più rocciosa. Scandalizza le autorità, oggi con lo stesso colore della pelle, che non capiscono perché anche loro non possano salire sulla stessa scala mobile e preferiscano languire negli ultimi ghetti, come quello incendiato a Baltimora. «Non si rendono conto che i primi a pagare e a subire i danni per quello che hanno fatto sono proprio loro, sono le loro famiglie e gli abitanti di quei quartieri e case e commerci che hanno distrutto», ha lamentano il sindaco, avvocata talmente colta e bella da essere stata ingaggiata anche per una parte nel musical “Chicago”, in passato. O forse se ne rendono conto invece benissimo, perché nulla può essere più atroce che sentirsi emarginati non dal solito “schiavista cattivo”, ma dai propri simili. Nei campi del cotone oggi divenuti deserti di cemento.

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