mercoledì 29 aprile 2015

Repubblica 29.4.15
“Ma davvero qualcuno sta ridendo?”
Il dubbio del papà di Doonesbury
di Garry Trudeau


LA mia carriera — immagino proprio di poterla chiamare ufficialmente così, adesso — non è stata una mia idea. Quando il direttore Jim Andrews mi assunse al mio primo anno di college e mi offrì il posto che ho tuttora, non mi era ben chiaro che cosa avesse in mente. Inspiegabilmente non sembrava preoccupato dal fatto che io fossi del tutto sprovvisto delle abilità tecniche associate di solito alla creazione di una striscia di fumetti. A lui interessava la mia prospettiva. La mia identità generazionale. Ritenne la mia goffa abilità nel disegnare alla stregua di una sorta di fumetto-verità, di dispacci dal fronte, crudi e sovversivi. Perché erano così sovversivi? Beh, per lo più perché avevo un’educazione limitata. Gli anni al college mi avevano dato l’impressione, del tutto errata, che non esistessero limiti, che per un artista fosse del tutto sicuro esprimere in pubblico commenti su imponderabili temi politici e culturali. In verità, una delle cose più belle dell’incompetenza giovanile è che di frequente è confusa con il coraggio.
In realtà, si tratta soltanto di un’imprecisa valutazione del rischio. Una mia amica, ex psichiatra di alto grado nelle forze armate, una volta mi ha raccontato che per riferirsi alla corteccia prefrontale, sede del discernimento e del controllo sociale, nell’esercito hanno un termine tecnico. «La chiamiamo “sergente”» mi ha detto. Nel mondo editoriale la chiamiamo “direttore”. In quanto a me, ne avevo uno, e anche di talento, benché all’inizio i nostri rapporti siano stati alquanto burrascosi. Il mio fumetto era sempre respinto. Poi, una sera, il mio capo John McMeel mi portò fuori per una bistecca e mi spiegò la sua strategia: «Non ti preoccupare. Prima o poi questi crepano». Per la miseria, aveva proprio ragione! L’anno seguente l’amato patriarca di quei tre giornali morì, lasciandoli in eredità all’intemperante figlio la cui prima decisione, naturalmente, fu di ripristinare l’uscita del mio Doonesbury .
Per tutta la mia carriera mi hanno accolto e respinto dai giornali: una delle ultime volte è stata quando ho parlato degli accertamenti transvaginali obbligatori in Texas (indispensabili per ottenere il permesso di abortire, effettuati con sonde di plastica di 25 centimetri; nella striscia a fumetti venivano paragonati agli stupri, ndt). Ho perso la pubblicazione su settanta giornali quella settimana, dal che si evince che la mia capacità di discernere dove si debba tracciare la linea rossa col tempo non è migliorata granché.
Dalla tragedia di Parigi, io e la maggior parte dei miei colleghi abbiamo trascorso moltissimo tempo dialogando su dove si debba tracciare la linea rossa. Come sapete, la controversia sulle vignette di Maometto ebbe inizio otto anni fa in Danimarca, come forma di protesta contro “l’autocensura”, la chiamata alle armi di un direttore di giornale contro quella che riteneva essere una correttezza politica soffocante. L’idea che c’era dietro le vignette originali non era quella di intrattenere o illuminare o sfidare l’autorità: l’incarico assegnato ai vignettisti era di provocare. E in ciò ebbero un successo incredibile. Non soltanto un vignettista fu assassinato a colpi di armi da fuoco, ma in tutto il mondo scoppiarono tumulti che provocarono la morte di molte altre persone. Esercitare discernimento e usare buonsenso nell’esprimersi furono denunciate come pratiche incompatibili col diritto d’espressione. E così ora siamo alla deriva, in un mare di dolore sempre più vasto. Paradossalmente, Charlie Hebdo , che aveva sempre sostenuto di attaccare i fanatici islamici e non la popolazione, è riuscito a essere molto provocatorio nei confronti di molti musulmani di tutta la Francia che hanno fatto causa comune con alcuni tra i più aberranti e violenti emarginati. Che funesto risultato… La satira, tradizionalmente, ha consolato i tartassati tartassando chi di consolazione ne ha già. La satira fa scagliare il piccolo contro il potente, contro ogni tipo di autorità. Alcuni grandi maestri francesi della satira, come Molière e Daumier, colpirono sempre duro dal basso verso l’alto, mettendo in ridicolo chi si compiace di sé o è ipocrita. Ridicolizzare chi non è fortunato non è mai divertente: è solo crudele. Colpendo duro dall’alto verso il basso, attaccando una minoranza sprovveduta ed emarginata con disegni sgradevoli e volgari, Charlie ha girovagato senza meta nel regno dell’istigazione all’odio. Beh, voilà: le sette milioni di copie pubblicate dopo il massacro hanno fatto proprio questo, innescando violente proteste in tutto il mondo musulmano, tra cui una in Niger, dove dieci persone hanno perso la vita. Nel frattempo il governo francese si è tenuto impegnato facendo retate e arrestando oltre un centinaio di musulmani che scioccamente avevano utilizzato la loro libertà di espressione per esprimere il loro sostegno agli attentati.
La libertà di espressione in Francia è una tradizione troppo piena di contraddizioni per essere abbracciata fino in fondo. Perfino Charlie Hebdo una volta ha licenziato un autore che non aveva corretto un articolo antisemita. A quanto pare, costui aveva varcato una linea rossa che esisteva per una minoranza, ma non per un’altra. Gli integralisti della libertà di parola non hanno ancora capito che non si deve far ricorso al diritto di offendere un gruppo etnico soltanto perché tale diritto esiste. O che quel gruppo non deve rinunciare al proprio diritto di sentirsi offeso. Si ha il diritto di sentirsi offesi. Di libertà si deve parlare sempre solo nell’ambito della responsabilità. A un certo punto, l’integralismo della libertà di espressione diventa infantile, poco serio. Diventa a sua volta una forma di fanatismo.
Sono consapevole di poter esporre queste mie osservazioni da una posizione speciale, in sicurezza. Come ha detto Jon Stewart all’indomani del massacro, in una società libera la presa in giro non dovrebbe essere incoraggiata. Fare satira è un privilegio che non ho mai preso alla leggera. E ancora adesso cerco di farlo nel modo giusto. Doonesbury resta un work in progress, un resoconto imperfetto dell’imperfezione umana. Tuttavia, il mio è un mestiere che esiste solo grazie alla considerevole libertà di cui godono i commentatori in questo paese. Tale libertà è stata esageratamente bistrattatan ell’era digitale, fino a diventare del tutto irriconoscibile. Adesso non è facile immaginare dove si collochi per la satira la linea rossa. Nondimeno, vale sempre la pena porsi una domanda: «C’è mai qualcuno, davvero qualcuno, che sta ridendo?».
Se non è così, probabilmente si è commesso un errore.
Questo testo è un estratto del discorso del disegnatore premio Pulitzer Garry Trudeau alla cerimonia dei George Polk Awards dell’università di Long Island Traduzione di Anna Bissanti © 2-015 Garry Trudeau