Repubblica 27.4.15
Quei templi cancellati, gemme uniche in Asia
di Paolo Matthiae
LA MAGICA valle di Katmandu con i suoi monumenti secolari di una civiltà remota dal nostro mondo occidentale sprofonda per l’inaudita violenza di una terra che trema e travolge, ancora una volta, uomini e cose con la cieca fatalità della natura. Vulcani, terremoti, inondazioni, oltre mietere vittime umane inconsapevoli, colpiscono le opere di un passato inerme di fronte a cataclismi imprevedibili. Le grandi civiltà del pianeta, dalla Cina al Messico alla Grecia, avevano solo consapevolezza che terribili eventi distruttivi accadevano e ne avevano interpretato proprio l’imprevedibilità creandosi il mito di singolari ciclicità di queste catastrofi o postulando, come in Mesopotamia e in Israele, che si trattava di irripetibili castighi della condotta immorale dell’umanità.
Il mondo moderno resta sconvolto, oltre che per le gravissime perdite di vite umane, per gli irreparabili danni al patrimonio culturale, talora, come forse è il caso del Nepal oggi, domandandosi quali mai tesori di civiltà stiano scomparendo. Il mondo occidentale, in particolare, sempre inguaribilmente orgoglioso di una pretesa quanto convinta superiorità culturale, si risponde spesso, tacitamente, che la qualità delle opere che scompaiono in una così distante, geograficamente quanto culturalmente, contrada dell’Oriente, come il Nepal, non può certo rivaleggiare con i prodotti, sommi, del nostro Occidente.
Ma gli uomini dell’Occidente si ingannano. I dieci siti del Nepal catalogati patrimonio mondiale dall’Unesco comprendono due tra i più grandi stupa buddhisti di tutta l’Asia, Swayambhunath e Budhanath, e due templi hindu, Pashupatinath e Changa Narayan, che sono gemme uniche dell’architettura dell’Asia centrale, oltre le tre città regali della storia del Nepal, Katmandu stessa, Patan e Bhaktapur. Anche se la maggior parte delle opere architettoniche colpite risalgono non oltre il XVI secolo e la celebre torre a nove piani di Katmandu fu costruita solo agli inizi dell’Ottocento, il significato di edifici sacri come Changa Narayan, sia per la storia dell’architettura per la sua particolare spazialità e per la preziosità delle sue decorazioni scultoree che per i valori religiosi che vi sono espressi con riferimenti cosmogonici e filosofici incentrati sulla figura del dio Visnu, è pari all’alta antichità della sua originaria fondazione, che ne fa il più antico santuario hindu del Nepal.
La suggestione fortissima di questi luoghi di culto buddhisti e hindu è accresciuta dalle leggende diffuse nella valle, che tramandano che, nel VI secolo a. C., il Buddha stesso e i suoi discepoli soggiornarono per qualche tempo nella regione di Patan e, se di questa pia tradizione non v’è prova, è certo, però, che Asoka, il grande re Maurya del III secolo a. C. cui si deve l’inizio di un’amplissima diffusione del Buddismo, vi costruì quattro stupa monumentali. L’inserimento di opere, siti, musei di qualunque Paese nel catalogo del patrimonio culturale mondiale da parte dell’Unesco, ad un tempo, riconosce un valore universale a quelle realizzazione dell’umanità e impone vincoli per la loro conservazione. Di più, afferma, in maniera sottintesa ma evidente, che i beni del patrimonio culturale sono tutti uguali tra loro, che si tratti di S. Sofia di Istanbul o di una medina del Marocco, di un dipinto del Rinascimento toscano o di una miniatura moghul indiana, della Città Proibita di Pechino o dell’Acropoli di Atene.
Questo richiamo dell’Unesco, spesso trascurato ma di altissimo valore, deve essere più presente alla nostra attenzione in presenza di catastrofi come quella del Nepal di questi giorni. La comunità internazionale deve essere pronta a intervenire in soccorso di quello straordinario patrimonio, perché quegli stupa e quei templi hindu hanno lo stesso valore, universale, di un capolavoro del Barocco europeo o di una moschea abbaside dell’Iraq.