lunedì 27 aprile 2015

Repubblica 27.4.15
Il pressing sul Colle per l’ultimo soccorso
di Stefano Folli


PER la prima volta si tenta di esercitare qualche rarefatta pressione su Sergio Mattarella. Ed è curioso, ma non troppo, che al Quirinale guardino con una certa impazienza esponenti del mondo più vicino al capo dello Stato sul piano culturale e politico. La reticenza non sorprende perché la materia è delicata, trattandosi di quattro voti di fiducia sulla riforma elettorale.
MA è chiaro che Rosy Bindi, per citare un nome, freme e si aspetta che il presidente della Repubblica dica una parola, o meglio agisca dietro le quinte per dissuadere il governo dal mettere in pratica quelle che sembrano ormai le sue intenzioni.
La Bindi è una rappresentante storica della sinistra cattolica e aveva le lacrime agli occhi per la gioia il giorno dell’elezione di Mattarella. Ma ovviamente è pericoloso credere o anche solo pensare che il presidente della Repubblica porti con sé al Quirinale, tale e quale, il proprio patrimonio di vita e di cultura e si disponga ad agire senza filtri e mediazioni. Il vertice delle istituzioni impone una cautela eccezionale, specie in una fase di passaggio come quella che il Paese sta vivendo. E rappresentare al meglio il ruolo di garanzia significa anche scontentare, in qualche caso, persone con cui un tempo si sono condivise certe battaglie politiche.
In altri termini, sembra poco plausibile che il capo dello Stato tolga le castagne dal fuoco alla minoranza del Pd o ai gruppi di opposizione a cui non piace la riforma elettorale. E quando si parla di opposizione ci si riferisce in particolare a Forza Italia, che ancora in gennaio al Senato votava con convinzione (salvo eccezioni) la stessa legge contro cui oggi si scaglia. Quanto alla minoranza del Pd, non riesce a dimostrarsi compatta se non quando protesta — con ragione — contro il ricorso al voto di fiducia. La forzatura renziana sottolineata da Bersani è reale, ma nel complesso la minoranza non è credibile come gruppo organizzato. E quando l’ex capogruppo Speranza denuncia «la violenza contro il Parlamento », è di certo consapevole che l’aula deserta dell’altro giorno, mentre Gentiloni riferiva sul povero Lo Porto, non rappresenta una violenza meno dolorosa o una mortificazione più blanda della funzione parlamentare. In altre parole, se la riforma di Renzi diminuisce lo spazio delle assemblee, essa non fa che fotografare — senza dubbio a vantaggio dell’esecutivo — una realtà pre-esistente.
Si capisce allora che sperare in un intervento salvifico del capo dello Stato sia un modo ambiguo di trarsi d’impaccio. A maggior ragione se la speranza nasconde una vaga sollecitazione. Su questo punto Mattarella non sembra incoraggiare i critici della legge. Infatti un conto è auspicare, come ha detto il 25 aprile, «le opportune convergenze» per superare i contrasti in vista del «bene comune ». Altro conto sarebbe dar mano a una fazione che sta perdendo la contesa e che può al massimo fare conto sull’ostruzionismo (destinato peraltro a essere disinnescato nei prossimi giorni) o sui franchi tiratori del voto segreto: visto che alla fine dovrà esserci per forza un voto coperto sul testo della riforma, quali che siano state le richieste di fiducia.
La verità è che la battaglia contro l’Italicum dovrebbe essere combattuta in Parlamento a viso aperto, senza scorciatoie istituzionali. Ma i guerrieri non sembrano troppo convinti. I numeri sono scarsi anche perché ci si è ridotti all’ultimo fra contraddizioni di ogni genere. È probabile che l’opportunità di modificare la riforma, o in alternativa di affossarla, si fosse presentata al Senato nella votazione che precedette di pochi giorni la seduta comune delle due Camere per eleggere il presidente della Repubblica. Quella fu l’occasione persa dalla minoranza del Pd. Ma esisteva ancora il patto del Nazareno che di lì a poco si sarebbe dissolto. E adesso alla Camera i numeri sono impietosi.