sabato 18 aprile 2015

Repubblica 18.4.15
La sindrome atlantica e lo stagno dell’Italicum
Riforma del Senato, il sasso lanciato da Renzi è un tentativo di fermare la lacerazione del Pd
di Stefano Folli


ALLA Casa Bianca, coperto di lodi da Obama come leale alleato degli Stati Uniti, giudicato con ammirazione per l’energia riformatrice, Matteo Renzi avrà vissuto la sindrome che colpisce più o meno tutti i governanti italiani oltre Atlantico. Laggiù è facile sentirsi statisti di livello internazionale e guardare da lontano, con fastidio e dispetto, le beghe domestiche, le risse inconcludenti nei palazzi romani. Se è vero che in fondo all’animo del presidente del Consiglio c’è l’idea di un Partito Democratico ben rimodellato, docile strumento nelle sue mani, emendato dai capricci della minoranza, si capisce perché ha voluto confidare a Claudio Tito qualche idea innovativa sulla riforma del Senato giusto un attimo prima di partire per Washington, con un piede già sulla scaletta dell’aereo.
La speranza era di guadagnare così qualche giorno di tregua, offrendo ai litiganti di casa nostra un po’ di materia costituzionale su cui discutere e ovviamente dividersi mentre il premier è all’estero. Certo, è plausibile che Renzi avverta la necessità di correggere qualcosa nella riforma di Palazzo Madama. Una riforma che presenta — non da oggi — aspetti critici destinati a sommarsi ai dubbi sul sistema elettorale. Il rischio è che la somma di due leggi fatte male, o comunque migliorabili finché si é in tempo, accentui il malessere istituzionale anziché guarirlo. Ma non è chiaro se realmente il presidente del Consiglio intenda entrare nel merito della riforma da modificare, oppure se la sua sia un’iniziativa solo politica. Ossia un modo per spiazzare i suoi avversari della minoranza Pd, impedendo loro di riorganizzarsi in vista del voto dell’Italicum. E in ogni caso evitando soprattutto che si dica e si scriva di una trattativa in atto fra Palazzo Chigi e la pattuglia ribelle.
Lo stile di Renzi, così come lo conosciamo, fa pensare a una mossa politica che non calcola più di tanto il merito costituzionale della proposta. In fondo era stato proprio il premier a battersi a lungo per rendere non elettivo il nuovo Senato (anche allo scopo di abolire in chiave anti-casta l’indennità economica dei cento parlamentari). Ora all’improvviso lo scenario cambia e l’ipotesi dell’elezione popolare rientra dalla finestra, sia pure in forme non precisate. Al punto che il costituzionalista Stefano Ceccanti, non certo un anti-renziano, sostiene l’impossibilità di ripristinare il Senato elettivo con un emendamento, un po’ alla chetichella, e ritiene che in tal caso si debba ripartire da zero. Difficile pensare che Renzi voglia questo. Quindi la mossa è politica.
Non è l’apertura di un negoziato, tanto meno il tentativo di avviare uno scambio. Semmai è un modo per annacquare le resistenze della minoranza sull’Italicum, così da arrivare all’approvazione in tempi certi e se possibile senza il voto di fiducia, senza cioè quel passaggio che presenta un costo alto per l’immagine pubblica del premier. Del resto, un conto è caricare di significati politici il voto finale sulla legge, minacciando la crisi di governo; tutt’altro conto è conquistare l’Italicum solo grazie a un voto di fiducia, al termine di una partita estenuante che era cominciata chiedendo «la più larga condivisione» sulla riforma.
Ecco allora il sasso nello stagno della riforma del Senato. Tutto quello che può smuovere le acque in una situazione delicata può essere un vantaggio per Renzi. Il quale sembra oggi comprendere che un Pd lacerato a metà può diventare un problema politico incontrollabile. Se Bersani diventa, come in effetti è già, il consistente capo di una minoranza corposa, il premier-segretario non può fare spallucce come se si trattasse di uno sparuto gruppo di nostalgici. Ciò non significa, naturalmente, che Renzi rinunci al suo progetto di «partito della nazione». C’è anzi da credere che tornerà da Washington ancora più determinato a mandare avanti il progetto nelle forme possibili. In fondo sente di aver ricevuto da Obama una sorta di investitura, avendo garantito in cambio l’impegno italiano in Afghanistan e in Libia.