venerdì 17 aprile 2015

Repubblica 17.4.15
Claudio Pavone racconta in un libro la sua Resistenza
Piazzale Loreto davanti al corpo della Petacci
C’erano curiosità e anche fatuità. La folla non aveva saputo fare la rivoluzione e non era degna della tragicità di quello spettacolo
di Claudio Pavone


ANDAI a piazzale Loreto. Oggi non è facile separare l’impressione avuta allora da quelle indotte poi dal molto che si è scritto e discusso, anche da parte mia, su quel macabro spettacolo. La piazza era colma di gente di ogni ceto, ed era difficile comprendere cosa davvero albergasse in tutti quei petti. C’era nel fondo la soddisfazione della palese fine della guerra e del fascismo, ma su di essa si innestavano sentimenti che andavano dal ricordo dei cadaveri dei partigiani fucilati dai fascisti e lasciati sul selciato proprio in quel piazzale alla soddisfazione di vedere puniti i colpevoli.
Dall’odio e dal disprezzo contro di essi fino a una sorta di festosità, di mera curiosità o addirittura di fatuità. Mi trovai accanto a una signora borghese, al braccio del marito, che diceva: «Però, che belle gambette aveva la Petacci!». Il mio moralismo e il mio estremismo rivoluzionario o presunto tale mi condussero a pensare che quella folla che non aveva saputo fare la rivoluzione non era degna della tragicità di quello spettacolo e che proprio questo gli dava un senso, oltre che macabro, riprovevole.
Non ho di quei giorni molti ricordi precisi, ma mi è rimasta nettissima nella memoria l’atmosfera generale ed esaltante di una città che ritrovava la gioia di vivere e la manifestava in mille modi, dall’andare in bicicletta al fare il bagno all’Idroscalo e al piacere di passare la notte camminando, discutendo e cantando in giro per la città, dove l’efficienza del comune di Milano aveva subito provveduto a riattivare l’illuminazione pubblica. Si ballava nelle piazze e nelle strade con un’allegria che rivelava la soddisfazione di potersi finalmente divertire.
Appariva naturale prendere una bicicletta incustodita e lasciarla incustodita una volta arrivati a destinazione: sembrava una forma di elementare comunismo. Colpiva l’aspetto assai poco marziale con cui i soldati americani giravano per la città. «Non sembrano soldati», diceva la gente, e qualcuno aggiungeva: «Che soddisfazione che abbiano battuto i tedeschi signori della guerra!». Risorgeva l’attività politica alla luce del sole e per quelli della mia generazione era una entusiasmante novità. Andai al comizio di Pertini per il Primo maggio presso l’Arena e, a parte il tono del discorso che mi parve un po’ arcaico, era bello vedere tanta gente venuta di propria volontà. Germogliavano le iniziative culturali, e la sede del Politecnico di Vittorini in viale Tunisia stava diventando un centro di richiamo e di scambio. Noi del Pil, il Partito italiano del Lavoro, stavamo discutendo dell’atteggiamento da assumere nella nuova situazione quando arrivò la notizia che il Pil di Romagna, la nostra base popolare proveniente prevalentemente dall’Uli (Unione lavoratori italiani), era entrato nel partito socialista per iniziativa di Giusto Tolloy, già di «Popolo e Libertà» e considerato l’intellettuale guida del partito. Rimanemmo sconcertati: tutta la linea di rimanere fuori dal Cln e dai compromessi che lo contraddistinguevano veniva così sconfessata. Alcuni lo ritennero un tradimento. (...) Eravamo ormai arrivati ad agosto ed io ero riuscito a ristabilire i contatti con mia madre e le mie sorelle ancora a Torchiara ma in procinto di tornare a Roma. Con Delfino Insolera, la cui famiglia era di nuovo a Roma, decidemmo di tornare a nostra volta, anche come messaggeri del nostro verbo politico. Ma il viaggio non era facile, dato lo stato delle comunicazioni ferroviarie. La difficoltà fu risolta dal nostro compagno Leone Krakmalnikov, figlio di aristocratici russi emigrati, che avevano creato in Umbria una fiorente azienda agricola. Leone si impadronì dell’automobile abbandonata da un grosso gerarca fascista datosi alla fuga e la rimise in sesto. Così una mattina lasciammo Milano a bordo di una potente Alfa Romeo. A Castelfranco Emilia andai a salutare i proprietari di una trattoria dalla quale zio Cesare aveva ottenuto che ogni tanto mi venisse mandato in carcere qualcosa da mangiare. Fui accolto e festeggiato con tutto il grande cuore del- l’Emilia rossa. La sera arrivammo a Cesena dove passammo la notte e avemmo un incontro pacato con gli ex compagni del pil. A Rimini passammo il confine che divideva le province sotto l’Amg e quelle già restituite all’amministrazione italiana.
Entravamo nell’Italia già liberata da un anno e più, ma per noi fu come un balzo indietro nel tempo. Di là c’erano i carabinieri con i gambali e le scalcinate divise che ci controllarono i documenti. A Narni, durante il viaggio da Roma a Castelfranco, la vista dei carabinieri ancora nella loro divisa mi aveva quasi dato la sensazione che il fascismo non avesse riconquistato proprio tutto. Dopo la Resistenza e le esaltanti giornate di Milano, la loro vista mi diede invece l’impressione di entrare in un paese un po’ fermo e alquanto ammuffito. A Perugia fummo ospitati nella signorile casa di campagna dei genitori di Leone, che a noi apparve sontuosa. cenammo in modo così ricco che, disavvezzo da tempo ai pasti abbondanti e succulenti, la notte mi sentii male.
La mattina dopo Delfino ed io ci avviammo verso Roma su una di quelle camionette che erano allora il principale mezzo di trasporto, urbano ed extraurbano. Io guardavo uomini e cose e cercavo di cogliervi i segni della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione. Arrivammo a Roma a metà del pomeriggio e la camionetta ci lasciò a piazzale Flaminio. Salii come un tempo sulla circolare nera. Nella mia casa di via Flavia, al quinto piano, l’ascensore ancora non funzionava e salii le scale carico dei miei fagotti. In casa c’era solo mia sorella Lidia, ma mia madre arrivò subito dopo. Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi, mi fu chiaro il senso del tempo trascorso.

IL LIBRO Claudio Pavone, La mia Resistenza, (Donzelli, pagg. 112 euro 16)