Repubblica 14.4.15
Günter Grass
L’uomo che risvegliò l’Europa suonando un tamburo di latta
Dal nazismo di gioventù alla polemica con Israele
Rivelò soltanto nel 2006 l’adesione da ragazzo alle Waffen-SS
Duri i suoi attacchi contro le scelte dello Stato ebraico
di Andrea Tarquini
BERLINO «L’IMPEGNO dello scrittore è più che scelta politica, è momento costitutivo del suo dialogo col pubblico. Spero che i giovani letterati riscoprano il gusto dell’ engagement ». Parole sussurrate, mentre lui sorridendo appena stringeva la pipa tra i denti, avvolto nell’eterna giacca marrone di foggia inglese. Era l’estate scorsa, quando incontrai Günter Grass l’ultima volta a Behlendorf, nella sua casetta tra i boschi non lontano da Lubecca. A Repubblica non diceva mai di no, prese posizione sulle nostre pagine sui grandi temi del momento. Sempre scomodo guastafeste, voce critica. Anche contro se stesso: come quella sera davanti a un centro culturale della Freie Universitaet qui a Berlino, quando col nostro giornale si sfogò per primo sulla sua tardiva confessione: «È vero, da adolescente, come milioni di altri tedeschi, mi lasciai sedurre dal nazismo, solo più tardi, da adulti, si matura soffrendo, e soffrendo tardai tanto a parlarne». È stato vivace fino all’ultimo, ed è rimasto fino all’ultimo un vitale sposo innamorato, padre di famiglia e patriarca gioioso, l’uomo che se ne è andato a 87 anni ieri all’ospedale di Lubecca. Criticava sempre tutti, anche la Spd suo partito del cuore per tutta la vita adulta. E commentando attacchi, critiche, diffamazioni degli avversari sapeva mostrare insieme, con genuinità emotiva, dispiacere e vis polemica. Corse sempre da un angolo all’altro della Germania a ogni campagna elettorale, fino all’ultima nel 2013, il “caro vecchio tricheco”. Una volta lo intervistai in una birreria della zona operaia di Monaco, dopo un comizio. «La politica del rigore di Angela Merkel deve cessare, l’Europa ha anche bisogno di altro, di un piano Marshall interno per rilanciare l’economia, e restituire ai suoi giovani un futuro di speranza», disse. Tante Memorie della Germania d’oggi s’agitavano coesistendo nel suo animo: l’entusiasmo del 1969, «quando noi intellettuali aiutammo Brandt a vincere»; l’inquietudine per l’oblio, «mentre noi tedeschi che nel dopoguerra fummo tanto aiutati a risollevarci e riaccolti nel mondo civile dovremmo capire come soffre oggi la parte povera dell’Europa». E la vergogna per quel lungo silenzio sulla sua scelta di 17enne volontario nelle Waffen- SS. «Non seppi vincere la vergogna, per questo tacqui così a lungo, alla fine mi sono detto basta».
Scomodo per tutti, spesso anche per la Spd e per la Germania postbellica che ricordando la Shoah ha fatto dell’appoggio a Israele una sua Raison d’état. «Ogni Stato ha bisogno di ricevere critiche per ritrovare i suoi valori e forze, anche Israele, ciò non è antisemitismo », ci disse allora a Behlendorf. Là nello studio tutto scaffali stracolmi di libri, accanto al laboratorio con torchio, tavoli da scultura, rifletteva sempre sul mondo, con accanto la moglie Ute. Più di ogni altra cosa, lo fece soffrire la decisione israeliana di dichiararlo persona non grata, dopo quella discussa poesia in cui accusava Gerusalemme (per le sue atomiche difensive) di essere ben più minacciosa per la pace che non l’Iran. «Fa male sentirsi chiamare antisemita, dopo mezzo secolo di lotte per l’amicizia tra Germania e Israele, mezzo secolo vissuto evocando la Memoria dei nostri crimini ogni giorno». Se n’è andato con tante inquietudini sul mondo. «Medio Oriente, Afghanistan, terrorismo, Ucraina… ricordiamo il centenario della Prima guerra mondiale, che iniziò da piccole crisi locali. Il presente offre abbastanza esplosivo da percepire una terza guerra mondiale come pericolo, forse l’umanità è incapace d’imparare dai suoi errori». Sparava a zero anche sui socialdemocratici, «incapaci di contrastare l’abilità politica della signora Merkel divenuta popolarissima facendo suoi principi e valori tutti Spd». Eppure quest’anima inquieta amava la vita, e lo diceva in pubblico. Come una sera alla Casa della cultura di Amburgo: chiudendo una conferenza-dibattito di critiche durissime alla politica estera americana, lesse una poesia dedicata alla moglie, «tu con cui ancora amo ballare il tango, tu con cui a letto, quando ne ho voglia, funziono ancora perché tu mi svegli».