domenica 12 aprile 2015

Repubblica 12.4.15
Quell’odiato quadrato nero che azzerò San Pietroburgo
Una mattina qualunque, in fuga dal grande sfarzo e dallo splendore abbagliante della città russa si finisce al museo dell’Hermitage ad ammirare il dipinto di Malevic che un secolo fa troncava con il passato in attesa del cambiamento
di Gabriele Romagnoli


Qui, dove non sai se è più prezioso il contenuto o il contenitore, superata la fila nel cortile, dopo un cartello che dice “Kandinskj e gli altri”, c’è l’opera: il riposo di tutti i guerrieri

Anche la bellezza può sfinire. Opprimere, perfino. Hai bisogno di uscirne: dallo sfarzo, dall’eccesso. Da (San) Pietroburgo. Ma come fai? La città è “l’infinità d’una prospettiva, elevata all’ennesimo grado”, è l’intollerabilità dello splendore quando non concede sosta: dietro Pietroburgo non c’è nulla, dopo Pietroburgo non c’è nulla. È Venezia più forza, Amsterdam più storia. I colori, e non alcuni, tutti, sono nei palazzi, nei ponti, negli abiti, nelle teche delle manifatture Fabergé: non pensare una variazione cromatica, è già stata creata, l’azzurro verdognolo dei canali, il madreperla delle nuvole, il roseo turchese dei tramonti e l’oro a incartare ogni cosa. L’arte, la guerra, il sangue versato, le invenzioni, i tumulti, le stazioni. Le chiese e le offese: una trasformata in piscina, un’altra in magazzino, purché smettessero di brillare. Ogni andata e ogni possibile ritorno: esuli sul treno della vendetta, ideologie nei testi del riscatto. In una mattina qualunque: la Neva luccica, le cupole della cattedrale scintillano, la luce rimbalza sui vetri a specchio dell’edificio Singer. Dove ti ripari?
Sembra folle rispondere: all’Hermitage. È qui, proprio qui, nell’unico museo dove non sai se sia più prezioso il contenuto o il contenitore, che vorresti cercare l’ombra, il silenzio, il momento di pace? Qui, superata la fila nel cortile, tra ragazzini che negoziano con i genitori la resistenza massima («Due ore poi andiamo a mangiare»), babushka che procrastinano la fine del lavoro parcellizzato (una spinge, per otto ore, la porta girevole facendo entrare tre visitatori alla volta, un’altra presidia, da una vita, la stessa sala, conoscendo soltanto la propria lingua e il “proprio” artista), nell’ennesimo tripudio di materiali, forme, tinte. Sala della malachite e dell’oro. Del trono e dell’orologio. Della tradizione e dell’avanguardia. Un Leonardo e un Caravaggio. Rembrandt e Cezanne. Nella dependance sull’altro lato della piazza, che molti non visitano neppure, già sazi e disperati: Monet, Van Gogh, Toulouse-Lautrec. Troppo non è mai tutto, ma tutto è sempre troppo.
Poi c’è questa indicazione, una freccia che non capisci neppure se punta a destra o a sinistra, un cartello a perderti, che dice: “Kandinskij e altri”. E altri? Stravinskij e signora, Dostoevskij e figli, Majakovskij eccetera eccetera. Che cosa ci sarà nel resto di un rublo?
Eccolo là, il momento che stavo cercando, il riposo di tutti i guerrieri, infilato tra un Kandinskij e una finestra: il quadrato nero di Kazimir Malevic. Ha un secolo. Poi, che questo, precisamente questo qui, sia il quarto e ultimo, che non sia stato pensato nel 1913, esposto alla mostra futurista del 1915, ma replicato quattordici anni dopo, che sia impercettibilmente diverso per dimensione e colore, non rileva. Il quadrato nero è il quadrato nero è il quadrato nero è il quadrato nero. Hai guardato le donne di Gauguin, i fiori di Picasso, le ballerine di Degas e sprofondi in questo vuoto assoluto? Come è possibile?
È negli occhi di chi guarda, ma chi potrebbe non vedere, con gli occhi di allora e con il senno di poi che questa era la pagina nuova, la reazione che determina il cambiamento proclamando l’inaccettabilità di tutto il resto? Come ci sia arrivato Malevic, per caso, per ipnosi, per allucinazione, è irrilevante. Non avesse saputo quel che stava facendo non avrebbe gridato: «Rinunciate all’amore! Rinunciate all’estetismo, al bagaglio di saggezza che portate con voi!».
Voleva cancellare tutto quel che lo circondava, spegnerlo per un attimo. Entri nella chiesa del salvatore del sangue versato e ti gira la testa. Chiudi gli occhi: vedrai un quadrato nero. È la sensazione di chi ha finito di leggere la Divina Commedia: se vuoi ancora scrivere non puoi che ripartire da “a”. E basta. È il destino di Mendel Singer, il Giobbe di Joseph Roth che in fine «si riposò dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli ». È lo spirito dei tempi, di quei tempi, giacché contemporaneamente Andrej Belyj scrive in Pietroburgo che la città «non è soltanto illusoria, ma si trova anche sulle carte, in forma di due cerchi concentrici con un punto nero nel mezzo». Quel punto è il quadrato di Malevic, la miccia di energia. Tutto quello che c’era stato prima ridotto a niente, per poter esplodere nel nuovo. Tutta l’arte, la passione, il colore: tesi. Il quadrato nero: antitesi. Quel che sarebbe venuto poi, il ritorno di Lenin alla stazione di Finlandia, la rivoluzione: sintesi. Fu appeso in alto, un secolo fa, come un’icona. Era il suo opposto. Nessuno mai lo ha adorato. Le masse lo hanno, anzi, detestato. Qualunque opera in cui non sia possibile riflettersi genera il panico nella gente. La storia non è uno specchio, ma un pozzo. Il quadrato nero la conteneva e forse ancora la contiene, ora che Pietroburgo è Zaraland, Al Bano in concerto e Burger King davanti alle tombe dei Romanov. È ancora antitesi, indecifrabile la sintesi.