domenica 12 aprile 2015

Repubblica 12.4.15
Forthcoming
Il male della banalità nelle lettere private dei soldati di Hitler
di Simonetta Fiori


È UN documento eccezionale, che nelle intenzioni della curatrice vuole creare disagio nel lettore. Per la prima volta viene pubblicata in Italia la raccolta delle lettere scritte dai soldati della Wehrmacht. Una selezione di sedicimila missive inviate alle famiglie dagli uomini di Hitler.
Messaggi per lo più teneri, in cui il carnefice ridiventa padre premuroso, marito appassionato, uomo inquieto e sensibile. Marie Moutier, che ha curato l’edizione francese, dice espressamente che vuole rompere l’immagine della macchina da guerra nazista per recuperare gli stati d’animo, le convinzioni, i dolori e le gioie di questi soldati. Non più il suono cadenzato degli stivali, le geometriche sfilate dove tutti si somigliano. Ma una comunità variegata di esseri umani alle prese con l’apocalisse. Studenti, banchieri, ministri del culto, operai, professori, impiegati delle poste. L’intento non è certo quello di alleggerirne il carico di responsabilità, ma il contrario: guardare con altri occhi la guerra che, proprio perché combattuta da persone e non da burattini del Führer, ci appare ancora più terribile.
Un documento agghiacciante, lo definisce Timothy Snyder nella prefazione. Perché le missive ci raccontano non tanto la banalità del male, ma il male della banalità. I soldati tedeschi erano consapevoli degli orrori commessi ma tali crimini erano solo un elemento della loro quotidianità, «raramente quello di maggiore importanza». Più importanti sono il cibo, l’alloggio, le camicie e le mutande pulite, la lontananza da casa. Per il criminale il crimine è solo una componente della storia, non l’azione principale. Per le vittime, al contrario, il crimine s’identifica totalmente con la storia. E se i primi riescono a fare del male spiegandolo ai propri cari e di conseguenza a se stessi, le vittime sono sopraffatte dal silenzio. In uscita il 14 maggio da Corbaccio, settant’anni dopo la fine della guerra.
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Per qualcuno la guerra non finì nel 1945, ma nel marzo del 1974, sull’isola filippina di Lubang. Il sottotenente giapponese Onoda Hiro avrebbe spiegato con una sua originale logica il motivo della assurda resistenza. Arrivato in quell’isola nell’autunno del 1944, Onoda aveva percepito che le cose si stavano mettendo male. E che in caso di sconfitta, tutti i giapponesi si sarebbero tolti la vita. Non era insomma prevista la possibilità di capitolazione. Così continuò a combattere. E quando sentì le voci giapponesi delle squadre della ricerca pensò che si trattasse di una trappola. Se il Giappone aveva perso la guerra, nessun giapponese poteva essere vivo. L’incredibile storia del tenace Onoda viene evocata dallo storico Holger Afflerbach in un singolare saggio sull’arte della resa. Un’arte che si è evoluta nel corso del tempo, dalle madri spartane che ammonivano i figli in partenza per la guerra - o vittoriosi o morti! - alla regolamentazione introdotta dalla Rivoluzione francese e soprattutto dalla cultura umanitaria dopo il 1945. How Fighting Ends. A History of Surrender è in corso di traduzione presso il Mulino.