sabato 11 aprile 2015

Repubblica 11.4.15
La cupola mafiosa su Roma
di Carlo Bonini


ALCUNE sentenze pesano più di altre. Perché destinate a fissare un precedente. Tanto più importante se segno di una discontinuità. Non solo giuridica, ma politica, sociale. Persino antropologica. La sentenza di ieri della Cassazione su “Mafia
LA PRONUNCIA , che ha respinto i ricorsi degli indagati arrestati il 2 dicembre scorso nell’inchiesta, è “capitale” per quello che stabilisce. Che non sta nell’esito processuale immediato e pure significativo — gli indagati restano in carcere, l’inchiesta della Procura di Roma può proseguire e salire di livello forte di una pronuncia che la conforta nella solidità del quadro indiziario — ma nell’affermazione, che è insieme di diritto e di sostanza, che ne è il presupposto. A Roma esiste, o quantomeno si potrà affermare che esiste se gli indizi diventeranno prove nel giudizio di merito, una Mafia «originale » e «originaria». Questo ci dicono i giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte.
«Originale» perché diversa nella sua architettura “associativa” dal paradigma della Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, della Camorra, della Sacra Corona Unita. «Originaria », perché autoctona, figlia di Roma, della sua peculiare e ancestrale forza di contagio criminale. Dunque di quel “Mondo di Mezzo”, per dirla con le parole dell’ex Nar Massimo Carminati, suo architetto, dove gli appetiti del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e l’omertà — e dunque come ogni Mafia degna di questo nome — non le forme, ma la sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica.
Per la prima volta nella storia repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis, nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti ‘ndranghetisti. Che sono e restano Mafia. Ma che, da ieri, non la esauriscono. Era un passaggio tutt’altro che scontato. Che richiedeva non tanto una “rivoluzione” nell’interpretazione giuridica dell’articolo 416 bis, e dunque una nuova declinazione del significato di Mafia. Che infatti non c’è stata. Ma che obbligava la Corte a una scelta per certi versi persino più coraggiosa. Decidere se affermare o meno il principio in ragione del quale, di fronte a indizi solidi, ai “precursori” dell’agire mafioso (omertà, vincolo associativo, capacità e forza di intimidazione), non esistono territori franchi, né “città aperte” nell’applicazione di quella norma nata pensando al Padrino.
Già, non era scontato. Non fosse altro perché nell’unico precedente per Roma — il processo a quella Banda della Magliana di cui Massimo Carminati era stato sodale e quindi epigono — chi aveva tentato sin qui di attraversare questo guado (i giudici di merito) aveva visto proprio in Cassazione franare la contestazione mafiosa. E non era scontato per il venticello che immediatamente si era alzato — e che, tra gli altri, il Foglio di Giuliano Ferrara aveva deciso di insufflare — per sbertucciare, tra il semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri, evidentemente degno di altra causa che non Buzzi e compari. «Mafia parlata», aveva osservato Giosué Bruno Naso, l’avvocato di Massimo Carminati (per altro unico tra gli indagati a non essere, prudentemente e significativamente, tra i ricorrenti in Cassazione). «Non ci sono morti, né feriti. Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione. Ma che senso ha il 416 bis?». A quanto pare, un senso c’è.