venerdì 10 aprile 2015

Repubblica 10.4.15
La legittimazione dell’Unione
In un Paese passato da un europeismo acritico a una eurostilità diffusa bisogna comunicare politica europea
di Andrea Manzella


QUESTA volta l’Odissea non è solo greca, è europea. Quello che pareva l’irreversibile approdo della moneta unica rischia di rivelarsi solo un “sistema di valute nazionali interconnesse”. Nel Mediterraneo il confine comune marittimo resta ancora affidato ad incerte e scoordinate guardie di frontiera nazionali. E i nuovi populismi credono di aver trovato nella eurostilità il cavallo vincente.
Come rilanciare l’Unione? È questo, quindi, il tema, stringente, del prossimo Consiglio europeo. Per noi italiani c’è un anniversario che potrebbe farci da guida. Proprio a giugno prossimo saranno esattamente trent’anni dal Consiglio europeo di Milano (1985) che pose le basi dell’“Atto unico europeo”. Probabilmente, alla Farnesina lo studiano ancora come esempio di scuola: per due buone ragioni. Da un lato, come modello di gestione di una “presidenza di turno” che seppe realizzare l’interesse nazionale al progetto europeo (anche allora incagliato in una brutta strettoia) senza velleitari protagonismi. Ma giocando “di sponda” tra le posizioni di Helmut Kohl e François Miterrand e mettendo in off side, addirittura, Margaret Thatcher. Dall’altro lato, come metodo basato su proposte concrete e politicamente evidenti, senza inventare “montagne volanti” politologiche e cambi di paradigma costituzionali: ma sapendo leggere e assecondare le dinamiche istituzionali in atto. Quella lezione di metodo istituzionale oggi ritorna utile. Perché la legislazione della crisi ha disseminato nell’ordinamento dell’Unione nuclei istituzionali, ora sconnessi. Per collegarli assieme, è necessario utilizzare sino in fondo le risorse giuridiche che sono già comprese e compresse nei Trattati. Sarà allora bene che il nostro governo tenga a mente, pur nelle mutate circostanze, quel “precedente”. E che proponga un coerente percorso: con quattro obiettivi istituzionali, i più concretamente fattibili.
Primo. La trasformazione dell’”unione economica” degli Stati dell’Eurozona in “cooperazione economica rafforzata”, come consente l’art. 20 del Trattato. Non è un formalismo giuridico, è sostanza. Perché con lo strumento della “cooperazione rafforzata” si crea un ordinamento particolare: con vincoli più stretti, con decisioni più facili e anche con “contratti” speciali, tra gli Stati partecipanti. Un ordinamento che non è però sconnesso dal resto dell’Unione perché la Commissione europea avrà sempre funzioni di collegamento. Già ora la Commissione è diventata una istituzione polifunzionale operante per l’unità dell’ordinamento (si tratti del Fiscal Compact o del “semestre europeo” o di altre procedure). D’altra parte, la “cooperazione rafforzata” è anche la scelta di prospettiva fatta dal Parlamento europeo nella fondamentale decisione del 12 dicembre 2013 (relatore R. Gualtieri). In essa la “differenziazione” di passo giuridico fra gli Stati è vista come “caratteristica costitutiva del processo di integrazione” dell’Unione.
Secondo. Con la creazione di una “cooperazione rafforzata” si aprirebbe la possibilità di conseguire un altro nostro prezioso obiettivo. Quello di istituire una linea di bilancio con funzioni e — soprattutto — fondi nettamente separati dal “quadro finanziario pluriennale”. Lo consente l’art. 332 del Trattato. È una possibilità giuridica che sarebbe nostro interesse sfruttare a pieno. L’Eurozona che ha già: un’articolazione del Consiglio che si chiama “Vertice euro”; un’articolazione dell’Ecofin che si chiama “Eurogruppo”; un’articolazione parlamentare che si chiama “Conferenza interparlamentare per la governance economica”, potrebbe così raggiungere anche una sua “capacità fiscale” articolata per fondi.
Terzo. Lo sforzo negoziale italiano dovrebbe, in ogni caso, indirizzarsi proprio alla costruzione di un “fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione”: che integri gli specifici regimi assicurativi nazionali. I dati “terrificanti” che l’Istat fornisce sulla disoccupazione, quella giovanile soprattutto, fanno di questo obiettivo un vero e proprio impegno di salvezza nazionale.
Quarto. In un Paese come il nostro, passato rapidamente da un europeismo acritico a una eurostilità diffusa, ci si deve preoccupare di “comunicare politica europea” attraverso meccanismi di legittimazione democratica immediati e familiari alla percezione pubblica. A Trattati invariati, questi due requisiti possono provenire solo dal consolidamento della cooperazione tra Parlamento europeo e Parlamento nazionale. La vera rivoluzione istituzionale del Trattato di Lisbona è consistita infatti nel dare ai Parlamenti nazionali natura e funzioni di istituzioni anche europee (art.12). La cooperazione interparlamentare trova del resto le sue radici e giustificazioni ultime nella stessa forma duale della cittadinanza europea che “si aggiunge” a quella nazionale. Finora questa risorsa è stata malamente sciupata, per opposte diffidenze e miopie, nelle cosiddette “settimane parlamentari”: che inglobano anche le “conferenze” miste istituite tra deputati europei e deputati nazionali. Ma il seme è stato gettato. E la forza delle cose — cioè la necessità che la cooperazione economica abbia doppia legittimazione, statale e sovrastatale — porta lì dove appunto dovremo mirare: cioè ad un sistema parlamentare euro-nazionale.
Insomma, le misure economiche, certo. Ma per stabilizzarne gli effetti, per raddrizzare davvero la rotta della barca europea, con l’Italia dentro, bisogna saldarle istituzionalmente. Con la loro collocazione in un quadro giuridico che ne faccia “vedere” la logica politica e la legittimità democratica.