venerdì 10 aprile 2015

Repubblica 10.4.15
Non abusare della fiducia
di Claudio Tito


ANCHE la politica ha dei vincoli. Deve porsi dei limiti. Uno di questi è la salvaguardia delle Istituzioni. Si tratta di quella difesa del sistema Repubblicano che si basa non solo sui codici ma anche su consuetudini e comportamenti. Minacciare il voto di fiducia sulla riforma elettorale, un provvedimento fondamentale in ogni democrazia è un errore
E PROSPETTARE reiteratamente questa possibilità, come ha fatto il ministro delle Riforme Boschi, è uno sbaglio ancora più grande. Non è in discussione il merito dell’Italicum. È infatti evidente che questa riforma è un netto passo avanti rispetto all’obbrobrio del Porcellum e a quell’organismo geneticamente modificato che ha preso forma dopo la sentenza della Corte costituzionale. Con un merito fondamentale: l’obiettivo di rendere l’Italia stabilmente bipolare e impedire il ripetersi di quelle alleanze contro natura come le larghe intese.
In questo caso, però, il punto è un altro. Una misura ordinamentale come la legge elettorale non può essere approvata a colpi di fiducia. Per capire che quella soluzione va allontanata dallo spettro delle ipotesi è sufficiente ricordare i precedenti. Dall’entrata in vigore della nuova Costituzione infatti, ce n’è uno solo che riguarda una legge elettorale nazionale approvata con la blindatura della fiducia: si tratta della cosiddetta legge truffa del 1953. Un sistema, infatti, utilizzato solo per quella competizione e subito dopo corretto. Il secondo — che peraltro confermò la possibilità dal punto di vista regolamentare di porre la questione di fiducia su questa materia — risale al 1990. L’allora presidente del Consiglio Andreotti chiese la fiducia per bocciare l’elezione diretta dei presidenti di Regione. Un’imposizione — anche in quel caso — smentita dai fatti da lì a poco: nel ‘93 venne varata con ampi consensi proprio l’elezione diretta dei Governatori. Due episodi che non costituiscono esattamente un buon viatico. Per non parlare, poi, anche se in un periodo assolutamente non comparabile, alla fiducia ingiunta nel 1923 da Mussolini sulla legge Acerbo.
Certo, anche i casi del ‘53 e del ‘90 non sono politicamente paragonabili all’attuale fase. Eppure resta nella sua interezza la necessità di ampliare il più possibile la base parlamentare che licenzia una norma di sistema. O almeno di tentare quella strada. La crisi del cosiddetto patto del Nazareno ha compromesso il coinvolgimento almeno di una parte delle opposizione nel processo riformatore. Non si può certo mettere in discussione la necessità di non abbandonare quel percorso. Il capriccio di Berlusconi, mai motivato fino in fondo, non fa venire meno l’obbligo di assegnare a questo Paese un sistema elettorale disegnato dal Parlamento e non dalla Consulta. Ma la questione di fiducia renderebbe ancora più evidente l’esiguità dei consensi su quel testo e soprattutto l’indisponibilità ad allargare i consensi. Un’esigenza sempre sottolineata dal Quirinale anche con il nuovo presidente della Repubblica che — vista la linea fin qui sostenuta — probabilmente non accoglierebbe positivamente una scelta di quel tipo.
E poi quale sarebbe il risultato? Se non passasse, si aprirebbe la crisi di governo e prevedibilmente le elezioni anticipate. Ma l’importanza assegnata dal governo all’Italicum ha trasformato questa materia comunque in una questione di vita o di morte. È chiaro a tutti che un incidente su quel terreno renderebbe comunque impraticabile la prosecuzione della legislatura. Senza contare che una fiducia conquistata con tante assenze tra la maggioranza intaccherebbe l’agibilità politica dell’esecutivo. L’effetto di un via libera con un numero di voti inferiore alla maggioranza di 315 — seppur corretto dal punto di vista regolamentare — sarebbe un colpo alla tenuta del governo. È vero che in quel caso Renzi si ritroverebbe in mano l’arma della nuova legge elettorale e nell’altro sarebbe al contrario disarmato. Ed è altrettanto vero che una parte della minoranza Pd punta a colpire attraverso questo voto il presidente del Consiglio più che a migliorare l’Italicum. Ma questo può essere sufficiente per approvare a colpi di fiducia un provvedimento strutturale per il sistema democratico?
Per non parlare delle prevedibili reazioni della parte più scalmanata dell’opposizione. A Montecitorio e al Senato purtroppo non siedono gli epigoni di Calamandrei o Croce, di Togliatti o De Gasperi. È altissimo il rischio che la risposta sia scomposta e violenta come è accaduto quando fu utilizzata la cosiddetta “tagliola” sul decreto che riguardava la Banca d’Italia. E l’immagine delle nostre Istituzioni subirebbe un altro colpo.
La questione di fiducia è una lama a doppio taglio. Le conseguenze negative sarebbero molto più incisive rispetto ai benefici che ne trarrebbe Palazzo Chigi. E la solitudine non sempre è l’alleato migliore.