martedì 7 aprile 2015

La Stampa 7.5.15
E Cappuccetto Rosso rottamò la nonna
Tra implicazioni psicanalitiche e valenze rituali l’indagine di Yvonne Verdier alla ricerca delle versioni più antiche e dimenticate della fiaba
di Massimiliano Panarari


Le fiabe possiedono implicazioni psicanalitiche e valenze rituali «toste». Gli analisti, che si erano parecchio dedicati fin da subito a illuminarne i dark side, potrebbero sbizzarrirsi nuovamente intorno al racconto di Cappuccetto Rosso, visto che ne esistono alcune versioni dimenticate. Nel libro L’ago e la spilla (che esce ora in italiano per le Edizioni Dehoniane Bologna, pp. 106, € 10; prefazione di Augusto Palmonari), l’etnologa e sociologa Yvonne Verdier (1941-1989) compie un autentico lavoro di genealogia, riportando alla luce le varianti misconosciute di una delle fiabe europee universalmente più famose, la cui funzione era quella di comunicare nel tempo una serie di preoccupazioni «pedagogiche» (sulle quali si potrebbe oggi eccepire ampiamente) delle comunità in cui circolavano.
La variante hard
L’innalzamento letterario ha quindi edulcorato e trasfigurato il contenuto vero (e sottaciuto) della tradizione orale che veicolava la storia di Cappuccetto Rosso. Che coincide per noi con due versioni soltanto: quella di Charles Perrault (1697), in cui la malcapitata protagonista viene sbranata dal lupo, o, in alternativa, quella ancora più nota e diffusa, e a lieto fine, dei fratelli (Jacob e Wilhelm) Grimm, nella quale «arrivano i nostri», vale a dire il cacciatore che squarta il lupo cattivo e ne estrae sane e salve nonna e nipotina. La prima più hard e cruda, la seconda fantastica - e, appunto, favolistica - anche nell’happy ending, ma entrambe differenti dalle antiche tradizioni orali delle province francesi da cui questa narrazione ha tratto origine ed è stata perpetuata. La studiosa transalpina aveva deciso di andare «alla sorgente», e si mise così a passare al setaccio le versioni popolari e folcloriche raccolte presso varie fonti orali dagli etnografi di fine Ottocento specialmente in alcune aree (bacino della Loira, Nivernese, Velay, Forez, regione settentrionale delle Alpi), finendo per arrivare a contarne ben 34. Mentre, per contro, non esisteva una tradizione orale di trasmissione della favola in Germania, con l’eccezione di una porzione del Tirolo italiano.
Il colore della pubertà
Dopo avere comparato quello che i narratori delle varie zone si tramandavano, Verdier scoprì che esistevano almeno due varianti «sensibili» rispetto agli adattamenti letterari. La prima concerneva la scelta del percorso prospettata dal lupo alla nostra Cappuccetto Rosso nel momento in cui le loro strade si incrociano. «Quale sentiero vuoi prendere, le disse, quello degli spilli o quello degli aghi»? (da cui il titolo della ricerca). A una prima occhiata qualcosa di incomprensibile, se non addirittura di assurdo, di cui l’etnologa compie l’esegesi sulla base delle consuetudini (anche linguistiche) delle campagne francesi ottocentesche, dove l’ago (ossia il cucire) indicava le attività domestiche, mentre la spilla (che veniva donata dai ragazzi durante la fase del corteggiamento) rimandava all’agghindarsi e al farsi belle. Lavoro e «frivolezza», due opzioni solo in apparenza contrapposte (perché, alla fine, in moltissimi casi si tenevano tranquillamente insieme), che compendiavano l’assai limitato (per non dire inesistente) «orizzonte di possibilità» delle giovani nell’universo contadino dell’epoca.
La vicenda di Cappuccetto Rosso manifesta allora la natura di «apologo educativo» per le ragazze della Francia profonda e rurale (e non solo). E assume anche, antropologicamente, il carattere di rito di iniziazione e passaggio, come evidenziano gli «stadi» del soggiorno di Cappuccetto nell’abitazione della nonna-maestra di vita, dove l’ingresso corrisponde alla morte e la partenza alla rinascita, una volta raggiunta la nuova condizione di adulta. Tanto l’ago quanto la spilla, oggetti aguzzi e appuntiti, in grado di ferire e far sgorgare il sangue, rappresenterebbero, giustappunto, la pubertà femminile (ribadita pure dal colore rosso del vestiario della bambina che sta per diventare grande).
Un pasto cannibalesco
Ad accomunare le versioni popolari c’è poi - seconda cospicua variazione rispetto al racconto di Perrault - il «pasto cannibalesco» e antropofago, quello che il lupo travestito da nonna offre all’inconsapevole bambina, la quale finisce per mangiarsi dei brandelli dell’antenata. Questo momento decisamente splatter e gore identifica (diremmo ora) il «conflitto generazionale» - o, forse, un’ancestrale rottamazione ante litteram… - come richiesto dalle ferree e primitive regole di quel mondo rurale, dove le più giovani scalzavano le anziane innanzitutto sulla base (e lo palesa la componente iniziatico-rituale) dell’acquisizione o della perdita delle facoltà riproduttive. Che rappresentavano precisamente il mezzo, insieme con l’ago e la spilla (e a ciò che sottintendevano), in virtù del quale le ragazze potevano addomesticare il lupo cattivo (la società maschile patriarcale) che si era appena sbranato la donna in età avanzata, facendo il lavoro sporco imposto proprio dalle spietate convenzioni comunitarie. E, dunque, Cappuccetto Rosso «attenta al lupo» - o forse no…