giovedì 23 aprile 2015

La Stampa 23.4.15
Il “genocidio” degli armeni
L’esordio del secolo crudele
Cento anni fa oltre un milione di persone furono deportate e uccise nell’Impero Ottomano. Sulla definizione si litiga ancora


La storia negata cominciò quella notte di cent’anni fa, il 24 aprile del 1915, nell’intrico di viuzze ciottolate che si torceva dentro il ventre di Istanbul, giù dai vicoli che precipitano nel Bosforo sotto gli occhi ciechi della Torre di Galata e poi nei quartieri antichi che stanno dall’altra parte del ponte Mehmet, tra case ancora di vecchio legno scolorato e strade subito mute di terrore. Fu una razzia rapida ma sistematica, che tirava giù dal loro giaciglio professori, medici, avvocati, artigiani, la testa pensante di una «nazione» che non poteva esistere. La «nazione» armena. La condannava a morte l’ideologia panturchista dei Giovani ufficiali, che volevano scacciar via i riti ormai consunti del Diwan e tutta la genia del Sultano e della sua corte, un mondo estenuato che non riusciva più a reggere lo scontro di un tempo nuovo e impaziente, dove non aveva posto la dottrina della religione di Stato né quella tolleranza, perdente, della tradizione ottomana (che oggi chiameremmo) del multiculturalismo etnico.
Da quel tempo, da quella condanna, da quelle ambizioni, è nata poi la Turchia di oggi, quella di Erdogan, che con arroganza malvestita dice a papa Francesco di non permettersi più di fare lo storico o il politico, perché in realtà «il genocidio armeno» è una invenzione, e lui, il papa, deve pensare a fare soltanto il suo mestiere e nulla più. Ridotta a uno scontro su una identità segnata dalla religione, nella misura d’un prete che protegge le sue pecorelle, ma non sa di storia, la questione del genocidio diventa un piccolo «affaire» dove cristianesimo e islam si misurano con i toni d’una diplomazia fuori controllo. L’«affaire», invece, è assai più complesso.
Il genocidio armeno comincia già come una violenta persecuzione di Stato alla fine dell’Ottocento, quando la Sublime Porta teme che quel milione e più (ma forse anche due milioni e più) di cristiani d’identità e di storia armena che vivono all’interno della estesa, composita, geografia dell’Impero possa diventare uno strumento di destabilizzazione del potere Ottomano, piegato alla pressione delle ambizioni strategiche dello zarismo russo e sottoposto alle tensioni che le nuove nazioni europee aprono nel corpo immenso dell’Impero.
Da quelle prime repressioni sulla fine dell’Ottocento, s’arriverà poi alla notte buia del 24 aprile. Che è solo l’inizio d’una marcia verso la morte che in quella notte muove un milione di armeni dalle vecchie strade di Istanbul e s’allarga poi, organicamente, razionalmente, alle terre distese dell’Anatolia, fin sotto l’ombra dell’Ararat.
Gli storici discutono tuttora se davvero ci fosse la volontà di sterminare un’intera «nazione», o (i negazionisti) se non fosse che il progetto repressivo mirava all’esclusione di una identità «altra», ma non era retto dalla volontà d’una distruzione pianificata di quella identità. Vengono cancellati comunque anche i greci di Turchia, gli assiri, i siri, i curdi; e i giochi di potere che sul tavolo della spartizione dell’Impero ormai cadavere praticano le diplomazie europee vincitrici della guerra mondiale concede e poi cancella status di nazione al popolo ameno, e si rimangia anche promesse ancor’oggi brucianti al popolo curdo.
La Turchia moderna, lo Stato nuovo che nasce con orgoglio e ambizione dalle ceneri dell’impero Ottomano, ha due solide radici identitarie: il rifiuto delle minoranze nazionali («In Turchia ci sono soltanto turchi»), e poi l’abbandono della commistione tra potere religioso e potere secolare («La fede appartiene alla prassi privata, lo Stato non ha legami religiosi»). Quelle radici le ha piantate colui che prese il potere dei giovani ufficiali ribelli, il padre della patria, Kemal Pasha Ataturk. Sono state radici solide fino all’arrivo di Erdogan. Il nuovo tempo ne ha corroso una, quella del laicismo kemalista, che rifiutava il velo e il fez, proibiva la pratica pubblica religiosa, cancellava la scrittura araba; la corrosione è misurata dalle ambizioni politiche di Ankara oggi, tentata nuovamente dalle mire di un panturchismo sempre meno interessato al cortile di Bruxelles.
Regge, invece, e si conferma dottrina di Stato, l’altra radice, quella che Ataturk considerava l’inevitabile reazione a un impero che s’era perso (anche) per l’impossibilità di gestire la convivenza di nazionalità diverse. Erdogan, che cede sulla prima, si arrocca su questa. Il nazionalismo neo-ottomano che guida la sua politica di potenza glielo impone. Ma l’Europa, naturalmente, e la sua storia e la sua cultura dei diritti delle minoranze, sono una geografia ormai lontana.